Sì Bezos, no Bezos: il cantiere dell’inconcludenza a Venezia

Il comitato del sì, il comitato del no: un teatrino rituale, che va in scena sempre uguale, in una città che non riesce più a immaginare sé stessa se non come spettatrice della propria situazione di stallo

Matteo Montagner

C’è una scena che riassume perfettamente lo stato attuale della città di Venezia: un gruppo di pensionati appoggiati alla recinzione di un cantiere, che commentano, borbottano, criticano il lavoro degli operai, senza sapere esattamente cosa si stia costruendo. È così che oggi si discute della questione “Bezos”.

Il comitato del sì, il comitato del no: un teatrino rituale, che va in scena sempre uguale, in una città che non riesce più a immaginare sé stessa se non come spettatrice della propria situazione di stallo.

Il “Comitato No Bezos” è solo l’ultima reincarnazione di un’identità collettiva in difesa di una realtà fossilizzata, quella di una parte della città che da anni si muove in modo pedissequo e prevedibile, opponendosi costantemente a qualsiasi intervento urbanistico, industriale, infrastrutturale con la forza cieca del rifiuto morale.

È il fronte del no, che ha bisogno del nemico per esistere, e che da anni si alimenta anche della rabbia e della frustrazione dei giovani che non trovano risposte soprattutto per la residenzialità, incanalandole all’interno di movimenti che sembrano radicali, ma sono solo parodie della radicalità.

Un eterno “1968” con i like su Instagram, in cui i giovani sono spesso comparse in un racconto che serve solo a rilanciare mediaticamente i soliti promotori di sempre: facce note, idee stanche, una sinistra della decrescita che confonde la sostenibilità, l’ecologia con il feticismo dell’inerzia.

Dall’altra parte il fronte del sì. Comitati d’accoglienza per il capitale, associazioni di categoria che, come un disco rotto ripetono le stesse formule da vent’anni: “valorizzazione del territorio”, “rilancio economico”, “turismo sostenibile”.

Una narrativa dove tutto è sempre “opportunità”, ogni arrivo di multinazionale è un “segnale di fiducia”, ogni nave, ogni brand globale, ogni investimento è un’occasione da non perdere. Dietro c’è il solito blocco sociale del consenso: albergatori, ristoratori, piccoli imprenditori del comparto turistico, gente che vive da anni di rendita grazie proprio alla rendita di posizione, così facendo la città non la cambiano, la vendono.

È una città passiva la nostra, che non riesce a fare un passo avanti senza prima spaccarsi in due, come un bambino capriccioso che può solo scegliere tra il gelato alla fragola o quello al cioccolato; nessuno che provi a capire davvero “perché” ci dividiamo così, nessuno che dica: forse il problema non è Bezos, ma quello che Bezos smuove sotto la superficie.

E allora vale la pena chiederselo: quali sono le vere ragioni di questa paralisi?

Elenchiamole:

  • Sfiducia strutturale - Viviamo in una società profondamente disillusa. Qualsiasi intervento è visto come sospetto. Non esiste più uno spazio di fiducia pubblica: ogni decisione è letta come il frutto di un interesse opaco. Questa sfiducia permanente è una risposta razionale a decenni di promesse tradite, piani regolatori manipolati, speculazioni camuffate da riqualificazioni. Ma quando la sfiducia diventa sistema ogni progetto diventa automaticamente nemico.
  • Assenza di visione - La città non ha un’idea di sé, non ha un piano condiviso per il futuro. E senza una visione ogni proposta esterna diventa una minaccia o una salvezza, a seconda del campo in cui ti collochi. L’assenza di una narrazione urbana condivisa porta a una dipendenza tossica dal “grande evento”, dal nome altisonante, dall’intervento esterno. Bezos diventa il simbolo di tutto ciò che potremmo (o non dovremmo) essere, perché non sappiamo più cosa vogliamo essere davvero.
  • Elitarismo mascherato da partecipazione - Molti dei comitati “di base” sono in realtà circoli chiusi, composti dalle stesse persone che da anni dettano l’agenda di ciò che è giusto o sbagliato in città, con linguaggi esclusivi, richiami ideologici ermetici, e un’attitudine paternalistica nei confronti di chi “non ha ancora capito”. È un'élite morale che combatte l’élite economica, ma che vive della stessa dinamica: potere, controllo, visibilità.
  • Feticismo del conflitto - Ci siamo abituati a discutere “contro” e non “per”. Ogni confronto si riduce a una rissa simbolica. Il conflitto è diventato il centro della scena non lo strumento per risolvere problemi. Questo non genera dialettica, ma paralisi. E in questo eterno scontro sterile chi ha già potere e risorse continua a fare i propri giochi indisturbato, mentre la città si guarda l’ombelico.

Nel frattempo Bezos verrà o non verrà. E comunque vada non sarà questo a cambiare le sorti della città. Perché il vero problema non è Bezos, è una comunità che ha smesso di parlarsi, che si divide in fazioni identitarie invece di cercare soluzioni comuni, una città che si guarda vivere senza mai decidersi a vivere davvero.

Finché restiamo lì, appoggiati al recinto del cantiere, a commentare il nulla, non cambierà niente, né con Bezos né senza.

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