«Il pentito Maniero piazzava droga»
L'ex Pattarello attacca: "È uno scandalo che nessuno di noi sia stato imputato per l'assassinio di Cristina Pavesi. Ci hanno contestato la rapina e io non sono mai stato condannato per quell'assassinio. Lo hanno fatto per aiutare Giulio Maniero"

Nelle foto in bianco e nero del 1990 il vagone postale dopo l’assalto della banda Maniero Nel riquadro Cristina Pavesi
MESTRE.
«È uno scandalo che nessuno di noi sia stato imputato per l'assassinio di Cristina Pavesi. Ci hanno contestato la rapina e io non sono mai stato condannato per quell'assassinio. Lo hanno fatto per aiutare Giulio Maniero. Continuo ad avere un grande rimorso per la morte di quella ragazza». Parla per diverse ore in aula bunker Paolo Pattarello, uno del comando che il 13 dicembre 1990 partecipò all'assalto al treno di Vigonza.
Ha parlato nel processo d'appello contro la Mala del Brenta. Il processo nato dopo il pentimento a metà anni Novanta di Felice Maniero. Un processo che si occupa di omicidi, rapine e di droga, lontani nel tempo. Del resto il cosiddetto processo Rialto, è una vicenda lunga e contorta con diverse zone d'ombra e da dove la verità processuale che esce è diversa dalla verità storica.
Dal quale continuano ad uscire imputati perchè i reati che vengono contestati loro sono andati in prescrizione. E dove per l'ennesima volta «sodali» di Maniero cercano di mettere in discussione la verità del capo che si è pentito. Da Paolo Pattarello a Mario Artuso e Silvano Maritan. Il primo e il terzo hanno provato ieri ancora una volta a raccontare cose diverse, spiegando che il boss ha raccontato quello che gli ha fatto comodo.
Il secondo è morto da poco. Una cosa è certa: prima Mario Artuso, in tempi non sospetti e ancora prima del pentimento di Maniero; e poi Pattarello hanno cercato di parlare. Inutilmente. Solo in tempi recenti è stata raccolta la verità di Pattarello ma ben poco di quanto ha raccontato è stato tenuto in considerazione.
Ieri ha ripetuto la sua verità. Sulla morte dei fratelli Rizzi uccisi secondo lui perchè Maniero temeva che lo volessero ammazzare. E poi ha spiegato di quando fu lui ad acquistare un fucile di precisione con canocchiale che Maniero intendeva utilizzare per ammazzare il giudice Francesco Saverio Pavone che all'epoca lo stava processando e alla fine lo fece condannare a 33 anni. Per organizzaere l'attentato poi non compiuto fecero anche dei sopralluoghi nei pressi dell'abitazione di Pavone.
Ma ancora una volta Pattarello ha voluto spiegare come sia stato Maniero, alla fine, a gestire il suo pentimento dettando le proprie regole alla magistratura veneziana. Ha raccontato dei «pizzini» con i quali il boss, già pentito e in regime di protezione, dal carcere ordinava ai suoi «colonnelli» ancora liberi di vendere la droga rimasta e di consegnare i soldi ai parenti - alla madre Lucia o al cugino Giulio - tanti soldi. Secondo Pattarello almeno due miliardi di vecchie lire. Sempre secondo il pregiudicato che sta scontando una trentina di anni lo stesso Maniero ha ordinato all'allora amante Monica Mencherini di consegnare alle forze dell'ordine due quadri rubati alla Pinacoteca di Modena. «A noi alcuni suoi amici fidati come Fausto Donà, poi pentito come lui, ci facevano credere che questo era la dimostrazione che lui stesse trattando con lo Stato come ha sempre fatto ma che non si era pentito», ha detto Pattarello. «Due giorni dopo che Donà, davanti a Salvatore Trosa (altro pentito ndr), mi ha mostrato i biglietti con le indicazioni di Maniero, mi hanno arrestato».
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