Venezia, detenuti «supporter» per ridurre il rischio di suicidio in cella

Il progetto con l’Usl 3 ha lo scopo di intercettare il disagio. Il direttore di Santa Maria Maggiore: «Con soli quattro educatori e 266 detenuti, non ce la facciamo»

Maria Ducoli
Il carcere di Venezia dove è attivo il progetto sperimentale
Il carcere di Venezia dove è attivo il progetto sperimentale

Era luglio quando un 37enne di San Donà si suicidò nella sua cella del carcere di Santa Maria Maggiore, dove era detenuto per reati connessi allo spaccio di sostanze stupefacenti. Un mese prima era successo a un altro uomo, due mesi dopo un giovane algerino avrebbe tentato di impiccarsi nei pochi metri quadrati a sua disposizione.

«Due suicidi da parte di persone che non avevano dato il minimo segnale di disagio», ha spiegato il direttore della casa circondariale di Santa Maria Maggiore, Enrico Farina, ammettendo che, tuttavia, con soli quattro educatori a fronte di 266 detenuti e una capienza di 159 persone, è difficile intercettare i segnali di malessere. Anche per questo, da pochissimo è stato avviato un progetto sperimentale di “peer support”, letteralmente “sostegno tra pari”, in sinergia con il Dipartimento di salute mentale dell’Usl 3. I peer supporter sono dei detenuti formati per aiutare altri detenuti e, soprattutto, per rilevare possibili segnali di disagio nei compagni di cella, nell’ottica di ridurre il rischio suicidario.

«Abbiamo subito accolto il suggerimento del direttore della Casa circondariale», spiega Elena Durella, psichiatra dell’azienda sanitaria e referente delle attività cliniche per la salute mentale in carcere, «si tratta, in effetti, di uno strumento mai praticato a Venezia ma utilizzato in altre realtà, come Lombardia e Lazio, da una decina d’anni. Si tratta di una strategia aggiuntiva alle misure già messe in atto per la prevenzione del disagio in carcere». Il peer support nasce nel Regno Unito, per poi approdare in Italia focalizzandosi più sulle persone detenute con problemi di tossicodipendenza, poi esteso anche a quelle con disagio psicologico.

La valenza sociale è doppia: i supporter sentono di avere un ruolo all’interno del carcere e, non da ultimo, hanno tutti superato con successo un percorso legato all’abuso di sostanze o a problemi legati alla salute mentale e, in questo modo, si riscattano. Hanno fatto i conti con le proprie fragilità, le hanno superate, e ora aiutano chi si trova in difficoltà. «Sono quindici i detenuti che stiamo formando, su segnalazione dell’area giuridico-pedagogica. Stanno mettendo a frutto le loro esperienze», fa sapere Durella, spiegando che gli incontri formativi saranno in tutto cinque.

«I supporter, poi, verranno incontrati ogni mese da due esperti psicologi, in modo che possano confrontarsi rispetto alle eventuali difficoltà e per ricevere un sostegno». Il progetto era una vera e propria necessità per la casa circondariale, visto il sovraffollamento e la carenza di personale di cui Farina non ha fatto mistero, in commissione consiliare a Ca’ Farsetti nei giorni scorsi. «Dove ci dovrebbe essere un detenuto, ce ne sono tre» ha fatto sapere il direttore, aggiungendo che dei 266 carcerati, 151 sono stranieri, ma il mediatore culturale è solo uno. Non va meglio sul fronte educativo: «Quattro educatori non bastano, anche per questo abbiamo attivato il progetto con l’Usl». Anche il capitolo del personale di polizia è una nota dolente: mancano 32 agenti ai 146 in servizio a Venezia, di cui un funzionario, 10 ispettori e 20 sovrintendenti.

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