Video goliardico su WhatsApp: Venezia, commessa di Gucci licenziata e riassunta

VENEZIA. Quel video goliardico era stato girato nello spogliatoio del negozio Gucci di Calle larga XXII Marzo. L’allora store manager della boutique di alta moda usciva dal bagno in mutande con una bottiglia piena in mano. Voleva sembrare pipì, ma era the.
Il video era stato condiviso da una giovane commessa sulla chat di WhatsApp alla quale partecipava il personale del negozio dietro a San Marco. Ma qualcuno lo aveva segnalato alla direzione ed erano scattati provvedimenti severissimi. Sia lo store manager che la commessa erano finiti nel mirino della Luxury Goods Italia spa, società che detiene il marchio Gucci in Italia. Ma solo il licenziamento della commessa è approdato davanti al tribunale del lavoro. A presentare ricorso, difesa dall’avvocato Jacopo Molina, la commessa che era stata licenziata senza preavviso per giusta causa ai primi di marzo dello scorso anno. La società contestava alla dipendente che aveva caricato il video sulla chat di WhatsApp «una gravissima violazione dei doveri e degli obblighi di legge e di contratto» tale da aver «minato il vincolo fiduciario alla base del rapporto di lavoro». Chiarendo peraltro di potersi rivalere sulla ragazza per quanto riguardava i danni derivanti dall’ulteriore divulgazione del video con lo store manager in slip con la finta pipì.
E così il licenziamento è approdato davanti alla giudice del lavoro Chiara Coppetta Calzavara: l’avvocato Molina ha sostenuto tra l’altro la sproporzione della sanzione rispetto ai fatti e l’illegittimità del licenziamento perché basato sulla violazione del principio dei tutela della segretezza della corrispondenza, sancito dall’articolo 15 della Costituzione. E su questa linea è stata improntata la decisione della giudice che ha imposto alla Luxury Goods Italia spa di riassumere la commessa, pagandole anche tutti gli stipendi dal licenziamento al rientro al lavoro. Questo perché, si legge nell’ordinanza depositata ieri, «Il licenziamento è illegittimo e deve essere annullato perché le comunicazioni WhatsApp non sono utilizzabili in virtù del principio di tutela della segretezza della corrispondenza». Il tribunale richiama una decisione della Cassazione in tema di licenziamento disciplinare secondo cui «I messaggi scambiati in una chat privata, seppure contenenti commenti offensivi nei confronti della società datrice di lavoro, non costituiscono giusta causa di recesso poiché, essendo diretti unicamente agli iscritti e non ad una moltitudine indistinta, vanno considerati come la corrispondenza privata, chiusa e inviolabile». Non sono quindi idonei a essere strumenti di diffamazione. Solo l’autorità giudiziaria può avere accesso a chat private.
Il licenziamento, sostiene la lavoratrice, le ha provocato anche uno stato di ansia. E per questo ha chiesto alla Luxury Goods Italia il risarcimento dei danni biologici. Se ne riparlerà nell’udienza fissata a marzo. —
Riproduzione riservata © La Nuova Venezia