Venezia laboratorio di idee: l’Ospedale al Mare segna la rotta da ritrovare
Le crisi di Venezia non derivano dal turismo in sé, ma da un modello che ha sacrificato equilibrio, pluralità e residenza. Per tornare a vivere deve riscoprirsi crocevia di competenze, spazio fertile per mestieri antichi e innovazioni idonee a migliorare la qualità della vita

Venezia oggi vive una tensione profonda tra ciò che è e ciò che potrebbe tornare a essere. Nel centro storico si contano 1.090 tra bar e ristoranti a cui si aggiungono circa 50.000 posti letto per appena 48.000 abitanti: un rapporto che descrive con crudezza la trasformazione del tessuto urbano.
La città è stata sbilanciata verso una monocultura turistica che invade gli spazi pubblici, genera bassi salari, produce una quantità di rifiuti insostenibile e alimenta fenomeni degenerativi come i tour alcolici, compromettendo la qualità della vita quotidiana.
La pressione si concentra in aree ormai note: Campo Santa Margherita, divenuto epicentro della movida, che non manca di implodere in malamovida; Rialto, dove il commercio tradizionale è quasi scomparso, sostituito da bar e bacari; le fondamenta degli Ormesini e della Misericordia, diventate corridoi gastronomici; il lungo rio di Cannaregio, ormai polarizzato sulla ristorazione. Lì, dove un tempo convivevano residenti, botteghe e attività diverse, oggi prevale una dimensione quasi esclusivamente turistica che confligge con la vita degli abitanti.
Ma c’è un altro elemento che racconta la trasformazione di Venezia: la scomparsa delle botteghe artigiane. Per secoli hanno rappresentato il cuore vivo della città, luoghi dove il sapere si trasformava in valore, dove competenze e creatività generavano lavoro, identità e qualità. La loro erosione non è solo un fatto economico: è una perdita culturale profonda, perché priva Venezia della sua capacità di produrre e non soltanto di consumare.
Eppure, qualche segnale di cambiamento esiste. La città si avvia a tornare ad attrarre saperi, idee e innovazione.
L’esempio concreto arriva dal progetto di trasformazione dell’ex Ospedale al Mare del Lido in un parco scientifico-tecnologico dedicato all’applicazione dell’intelligenza artificiale alla medicina. Una struttura capace di generare 900 posti di lavoro altamente specializzati, un polo che può invertire il processo di turisticizzazione, innescando a Venezia un’economia basata su conoscenza, ricerca e valore aggiunto.
Questo progetto indica una strada possibile: ricostruire un ecosistema urbano dove turismo e innovazione convivono senza che il primo divori tutto il resto. Una città che non è solo un luogo da visitare, ma un ambiente in cui si produce sapere; una città capace di far tornare giovani, ricercatori e imprese che sanno immaginare il futuro, e in cui i nostri figli laureati non siano più costretti a emigrare.
Le crisi di Venezia non derivano dal turismo in sé, ma da un modello che ha sacrificato equilibrio, pluralità e residenza. Per tornare a vivere, la città deve riscoprire la sua vocazione storica: essere laboratorio di idee, crocevia di competenze, spazio fertile per mestieri antichi e innovazioni idonee a migliorare la qualità della vita. Solo così potrà sottrarsi alla distorsione del presente e ritrovare la propria anima. —
*docente e saggista
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