Tombe sfondate e incuria le ferite di San Michele

Nel cimitero sepolti personaggi come Pound, Herrera, Brodskij e Strawinskij L’oblio dei sepolcri, i fiori per Vedova e le scarpette (logore) per Diaghilev
Interpress/Mazzega Venezia, 30.10.2017.- Isola di San Michele - Nella foto il Cimitero con la tomba di Ezra Pound
Interpress/Mazzega Venezia, 30.10.2017.- Isola di San Michele - Nella foto il Cimitero con la tomba di Ezra Pound
È uno dei luoghi più visitati di San Michele, egualmente caro a chi ama la lettere e a chi il calcio; fatto di ricordi, devozioni, di rosari in mano, preghiere laiche e, man mano che l’assenza è diventata più lieve, luogo di oblio. Ecumenicamente accoglie le tombe di Ezra Pound, Joseph Brodskij ed Helenio Herrera, messe a triangolo, come se potessero parlarsi; ma tra l’una e l’altra, come se fosse scoppiata una mina, il recinto evangelico numero XV mostra la ferite dell’abbandono.


Sepolcri scoperchiati, alberi cresciuti tra i marmi, lapidi a pezzi, erbacce tra le steli, ritratti impalliditi, piante rinsecchite; nomi, cognomi e date scoloriti, mangiati dagli anni, inghiottiti in un tempo senza tempo nel quale, a far la differenza, non è più la gloria dei morti ma la pietà dei vivi.


Alla vigilia del giorno dedicato ai defunti, cioè quando il cimitero pare una serra, sul vaporetto si sale a fatica, alla portineria c’è la coda per ritirare le chiavi della cappelle di famiglia e si va a visitare l’ampliamento di David Chipperfield solo per vedere l’effetto che fa; nel giorno, insomma, in cui il camposanto non fa meno tristezza, ma sicuramente meno paura, i turisti s’affollano per mettere un fiore sulla tomba dei grandi e ammutoliscono. Quel che a casa loro sarebbe probabilmente oggetto di venerazione, a San Michele illanguidisce sotto il velo dell’incuria.


Rose rosse, conchiglie, qualche sasso, un lumino, ornano la semplice tomba di Igor Strawinskij intorno alla quale, ieri mattina, un gruppetto di studenti di musica leggeva a voce alta la sua vita, per poi scrutarne il gelo della morte ai margini ombrosi del recinto greco numero XIV, quello che figura in tutte le guide, ma che tutti conoscerebbero lo stesso perché tra queste mura, sotto un baldacchino bianco e dietro la scritta d’oro, riposa Sergej Diaghilev.


È qui che le giovani ballerine di tutto il mondo erano solite venire a deporre le loro scarpette di raso; ma l’usanza, che mescolava ammirazione e speranza di protezione, s’è andata via via perdendo e oggi, a ottantotto anni dalla morte dell’impresario di balletti russo, le scarpette sono solo un paio, logore e sporche.


Lì dove la memoria è ancora viva, dove ci sono ancora eredi affettuosi, come Fiora Gandolfi, la vedova del mago Herrera che ogni anno si assicura che l’urna del marito sia sempre al calduccio di una sciarpa dell’Inter; lì dove qualcuno porta ancora qualche fiore sulla tomba di Emilio Vedova o spazza davanti al monumento funebre del pittore Teodoro Wolf Ferrari, la trascuratezza è sulla bocca dei vivi e, per quanto non nuova, ha voce per reclamare attenzione.


Ma è dove sono passati cent’anni dall’ultimo funerale, come nel caso di un’intera famiglia la cui tomba è stata quasi ingoiata dal terreno, che la memoria pare cancellata per sempre. Come per la bella e infelicissima Sonia Kalinesy, la giovane russa morta suicida per amore a 22 anni durante il Carnevale del 1907 e ritratta a grandezza naturale, la cui mano è diventata lucida per le carezze dei visitatori ma il cui volto s’è invece fatto verde perché, morti i genitori, da decenni nessuno pulisce più il bronzo.


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