«Pericoli crescenti Le imprese devono attrezzarsi contro gli hacker digitali»

Trovarsi all’improvviso i torni di un’industria metalmeccanica che funzionano a rovescio? Possibile. Benvenuti nella nuova frontiera della guerra cibernetica. E il caso del Lazio, la cui Regione è stata hackerata nei giorni scorsi da un attacco informatico che mira a bloccare i dati e i sistemi della vittima con l’obiettivo di ottenere un riscatto, sta lì a dimostrare quanto la questione sia di massima urgenza. Lo sa bene Paolo Armenio, vicepresidente di Confindustria Venezia e presidente Procyber Srl, azienda con sede a Mestre tra le prime nel settore della consulenza in campo di cybersecurity. «Il primo agosto resterà impresso nella memoria di molti» dice Armeno rispetto a quanto capitato nella Regione Lazio, «spero che ora la politica comprenda l’urgenza di affrontare questo problema e di prevenirlo in maniera strutturata e seria». Un passo indietro. Il primo agosto, un “ramsomware” ha colpito il Centro elaborazione dati del Lazio, il sistema informatico che gestisce l’intera struttura informatica regionale, che di conseguenza è stato disattivato dai tecnici della Regione. Sono stati interessati dall’attacco anche i sistemi informatici della campagna regionale di somministrazione del vaccino contro il coronavirus, e questo ha provocato diversi disagi. Per tutta domenica, e almeno fino a lunedì mattina, sono rimasti irraggiungibili sia il sito della Regione Lazio e tutti i servizi associati sia la piattaforma regionale per la prenotazione degli appuntamenti delle vaccinazioni. Ed ecco che a tornare d’attualità non è tanto lo sviluppo tecnologico di aziende, hotel, banche, liberi professionisti. Quanto piuttosto la barriera eretta a difesa del proprio lavoro. E qui, a sentire Armeno, c’è ancora molto da fare. «Le aziende hanno fatto importanti investimenti in termini di tecnologia», spiega il presidente di ProCyber, «in questo cammino, è stata però lasciata indietro la componente della sicurezza. Abbiamo aziende che, per fare una similitudine, sembrano le nostre case degli anni ’60, con finestre aperte e chiavi nella toppa e poi quel che succede succede. Ormai si deve invece capire che occorre attrezzarsi in tale ambito. Quello che è successo nel Lazio avviene quotidianamente: criminali informatici che attaccano le istituzioni pubbliche, o aziende private, e che puntano ad avere i soldi da un riscatto».
Già, un riscatto proprio come in un rapimento vero e proprio. Solo che qui l’ostaggio è sia fatto di dati sensibili (attività dietro cui si cela sempre un committente), quanto (soprattutto) della tecnologia che serve per far funzionare un’azienda. Ad esempio: camere di hotel bloccate, bonifici che partono in automatico. «E’ capitato, anche di recente», racconta Armenio, «di trovarsi di fronte a un tornio di un’azienda che gira al rovescio, perché hackerato. È la nuova frontiere della criminalità, bisogna attrezzarsi».
I riscatti, in alcuni casi, vanno dalle poche centinaia di euro fino a diversi milioni. Con il rischio, però, che l’intruso si faccia da parte senza restituire i codici di accesso, tenendosi così viva la possibilità di una nuova breccia nel sistema informatico. Ed ecco allora la necessità delle barriere protettive. Partendo proprio dall’abc: password con codici alfanumerici, mail dubbie da cestinare subito e così via. «Le aziende» conclude il presidente di Procyber, «devono investire tanto in conoscenza e informazione per non cadere nelle trappole. Su questo, siamo indietro. C’è ancora moltissimo da fare». —
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