Il tema della paternità nello scarno Missiroli

Poco più che trentenne, ma già al suo quarto romanzo, Marco Missiroli deve molto ai premi. Con il libro d’esordio, scritto a 24 anni, “Senza coda”, ha vinto il Campiello opera prima; con “Bianco” ha...

Poco più che trentenne, ma già al suo quarto romanzo, Marco Missiroli deve molto ai premi. Con il libro d’esordio, scritto a 24 anni, “Senza coda”, ha vinto il Campiello opera prima; con “Bianco” ha vinto il Comisso, ora la cinquina del Campiello con “Il senso dell’elefante”. Riminese, Missiroli ha una scrittura scarna, i suoi libri sono pieni di cose non dette, privi di ogni sottolineatura retorica. Eppure una sintassi non banale e storie che partono piccole e diventano grandi, perché nascondono sempre un nodo segreto, che rivelandosi apre improvvisamente nuovi scenari narrativi. Così è anche in “Il senso dell’elefante”, che inizia con l’arrivo in un condominio di Milano di un nuovo portiere, ma poco alla volta rivela un intreccio tragico di destini, che porta a svolte narrative perentorie. Il portiere che entra e curiosa negli appartamenti, che si prende cura del disagio dei condomini più fragili, che li accompagna nei momenti più dolorosi non è lì per caso, ma per assolvere a un dovere che viene dal passato. Anche qui, come in molti romanzi degli ultimi anni, il tema dominante è quello della paternità, intesa in senso molto ampio. C’è quella del medico che cura i bambini malati di cancro. C’è quella del prete spretato che non ha mai avuto padri ma nel silenzio vuole svolgere almeno una volta il suo ruolo paterno C’è quella dell’avvocato omosessuale che adotta i suoi condomini. Padri presenti e padri assenti, padri veri e padri acquisiti, come gli elefanti del titolo, che non si prendono cura solo dei loro figli, ma di tutti i piccoli del branco, perché questo è il loro istinto. Ma Missiroli racconta anche altre cose, come l’insinuarsi della crisi di fede, che non viene mai esibita ma sempre suggerita con molto tatto, ed in questo ricorda uno dei più bei racconti del novecento italiano, “Casa d’altri”, di Silvio D’Arzo. Ed ancora la crisi di un amore, il disfarsi di una amicizia, la inaccettabilità del dolore di chi ha come destino solo la morte perché la malattia non lascia speranza. Detto così, una tragedia dopo l’altra, un libro che sembra non lasciare alcuna speranza. Ma il talento di Missiroli, figlio spurio ma non del tutto illegittimo della tradizione minimalista, sta nel modo di raccontare, smorzando costantemente i toni, ritraendosi con pudore di fronte alla emozione più forti, con ellissi narrative che dissimulano di fronte al dramma, limitandosi a suggerirlo. Il suo portiere non è testimone, ma protagonista di una storia in cui tutti sono innocenti, anche quando fanno del male. E questa è una caratteristica di Missiroli, che racconta sempre usando grande pietà per i personaggi, alle prese con una complessità di cui non sanno venire a capo. Ed in qualche modo quindi semplificano tragicamente, andando incontro al proprio destino con la rassegnazione di chi non vede altre possibilità.

Riproduzione riservata © La Nuova Venezia