I “pentiti” della delocalizzazione il calzaturiero non va più all’estero

Sei anni fa 70 aziende della Riviera all’estero, oggi solo una manciata I sindacati: «Le griffe vogliono prodotti genuinamente made in Italy» 
Alessandro Abbadir

il fenomeno

Le delocalizzazioni nel comparto del calzaturiero della Riviera del Brenta si sono fermate. Della settantina di aziende che ancora 6 anni fa avevano aperto stabilimenti in Macedonia, Polonia, Albania, Romania, Bulgaria e Bosnia, ne sono rimaste pochissime, 3-4 al massimo. A fare l’analisi della situazione, puntando per il 2022 ad un Distretto della calzatura della Riviera sempre più segnato da alta qualità dei prodotti e dalla formazione dei lavoratori, sono Cristina Gregolin, referente di Femca Cisl per il comparto e Michele Pettenò di Filctem Cgil.

Un fenomeno, quello che coinvolge il calzaturiero, di segno completamente inverso rispetto a quanto sta succedendo alla Speedline. «La situazione di fine 2021 per il calzaturiero della Riviera è sicuramente più rosea. Rispetto al 2020, il mercato delle scarpe è ripartito», spiega Gregolin, «Il lavoro grazie agli ordinativi è aumentato rispetto all’anno scorso mediamente del 40%. In alcuni suolifici la situazione è talmente positiva che mi sono stati riferiti ordinativi del 15% superiori rispetto al 2019, anno pre-pandemia. Sono chieste ore-lavoro in più e anche la cassa integrazione Covid è poco utilizzata».

Il comparto del calzaturiero della Riviera del Brenta ha circa 550 aziende complessive per 10.500 lavoratori, un fatturato di 2 miliardi di euro prevalentemente caratterizzato da esportazioni di scarpe da donna di lusso e di alta qualità. Lo stop della delocalizzazione delle aziende nel corso degli ultimi 5- 6 anni per i sindacati ha motivazioni precise. «Il distretto della calzatura della Riviera del Brenta ormai si caratterizza per la presenza sul territorio di grandi griffe e aziende locali che per queste lavorano», spiegano Pettenò e Gregolin, «Queste puntano soprattutto su un prodotto di altissima qualità che è certificato in tutti i suoi passaggi produttivi. Le grandi griffe vogliono lavoratori su prodotti che sono genuinamente made in Italy. In Riviera del Brenta si è assistito così ad una riduzione delle delocalizzazioni che coinvolgevano una settantina di aziende fino a 5-6 anni fa con l’intento soprattutto di abbassare il costo del lavoro. Ora sono pochissime. Si è ridotto anche il fenomeno della delocalizzazione in loco, cioè quella caratterizzata dall’uso di laboratori cinesi con manodopera spesso in nero. Questi, circa una quindicina, si sono messi in regola, sono iscritti alla Camera di Commercio».

I sindacati sono dell’idea comunque che la cassa integrazione Covid possa essere prorogata a dopo la scadenza del 31 dicembre, visto che il Governo ha prorogato lo stato di emergenza fino a fine marzo. Una posizione che è anche della Uliltec Uil con il segretario Cristian Tito. «Stavolta però», sottolinea Pettenò, «è importante che vengano valutare le richieste e che le casse integrazioni non vengano accordate a pioggia. Vanno date a alle aziende che ne hanno bisogno, cioè spesso quelle medio piccole non legate ai marchi, con produzioni proprie” . —

Alessandro Abbadir

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