Caorle, da imprenditore vittima di Gaiatto a uomo di fiducia dei clan dei Casalesi

CAORLE. Dal rombo della sua Porsche alla sirena del cellulare che lo ha portato al carcere di Opera, accusato di concorso esterno: è la storia di questi ultimi giorni di Samuele Faè.
Da indaffarato imprenditore del Nordest a uomo di fiducia del Clan dei Casalesi in terra veneta: una fabbrica di fatture false al loro servizio - secondo la Procura antimafia di Venezia - come quella per 121 mila euro per la vendita di poster di Giovanni Paolo II, rilasciata dalla sua Domina Srl a favore della Thema Soc.Coop e quella di 7 mila euro (sempre in poster del Papa) intestata alla Enjoy, una delle ditte di copertura del clan. Sino ai più recenti contatti per trafficare armi per la nuova Mala del Brenta.
Solo qualche giorno fa, il rombo della sua Porsche nera aveva fatto girare tutti - fuori dal Tribunale di Cordenons - dopo essersi costituito parte civile contro il trader Fabio Gaiatto & Co: vittima tra le vittime dei raggiri di Gaiatto, si diceva. Ben 6 milioni in fumo.

Ma è una storia ben diversa quella del quarantenne di Caorle che si legge nell’ordinanza firmata dalla giudice Marta Paccagnella, su indagine coordinate al pm Roberto Terzo, che ha smantellato gli ventennali affari camorristici nel Nordest del gruppo dei Casalesi guidato da Luciano Donadio & Co. E sull’origine di quei milioni di euro andati in fumo - dei quali, nell’ordinanza non si parla - potrebbero aprirsi nuovi scenari.
Presentando l’indagato Faè, la gip Paccagnella ricorda come l’imprenditore «avesse manifestato la sua vicinanza al sodalizio nonostante la pregressa appartenenza all’Arma dei carabinieri» e si fosse messo a disposizione per riciclare danaro «e valuta contraffatta attraverso propri canali nella Città del Vaticano e in Svizzera».
Millanterie? Nella sua “scheda biografica” la Guardia di finanza snocciola un lungo elenco di precedenti penali, tra il 2004 e il 2013, per porto abusivo e detenzioni d’armi, reati ambientali, ingiuria, minacce e danneggiamento, bancarotta fraudolenta, truffa, sostituzione di persona, usurpazione di titoli. Quella di Faè - scrive la giudice - è stata «una collaborazione con l’associazione mafiosa di natura concreta, ampia ed efficace sin dal 2011, pur in assenza di una vera e propria affiliazione. I dirigenti del sodalizio, e in primis Luciano Donadio, hanno dimostrato di considerare Faè un collaboratore affidabile». È stato lui - con le sue conoscenze ai vertici della banca - a sbloccare un finanziamento da 100 mila euro a favore della Enjoy, bloccato perché sulla società erano iniziate a girare troppe voci scomode. A lui vengono chiesti suggerimenti per far dissequestrare un camion, per sapere chi segue certe indagini. Ed era stato Faè a raccontare a Donadio di essere stato intercettato nell’ambito di un procedimento per estorsione, tanto che il capo clan ordina immediatamente ai suoi di ripulire l’ufficio, in vista di una perquisizione: «società cooperativa via tutto...fammi bruciare questo...Grazie Samuele!».
Un legame forte, durato anche dopo il suo trasferimento in Croazia, per il riciclaggio di danaro e anche il traffico illegale di opere d’arte: «Negli ultimi mesi sono emersi gravi indizi a carico di Samuele Faè inerenti al riciclaggio di beni storici e archeologici di ingente valore, con documenti verosimilmente falsificati che gli consentirebbero di fruire dell’immunità diplomatica». Nuovi oscuri scenari dall’ultima memoria depositata dal pm Terzo, per «la manifestata, inquietante disponibilità ad attuare - in accordo con Donadio - traffici di armi, in particolare automatiche provenienti dai paesi dell’Est da importare in Italia e porre a disposizione della ricostituenda Mala del Brenta, grazie ai suoi contatti in Serbia».
Il suo legale, l’avvocato Fabio Capraro, ieri ha preferito non commentare, parlando con i cronisti di fulmine a ciel sereno. —
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