Caffè, botteghe e vetrine chiuse: piazza San Marco diventa fantasma

VENEZIA. L’ultima resa è in punta d’angolo, in faccia al campanile, tre vetrine su Piazza San Marco e due su Palazzo Ducale; i masegni, l’acqua, la storia tra le dita. Non è bastato avere Venezia ai propri piedi a salvare la vetreria Ars Cenedese, fondata nel 1946 da Gino Cenedese, carica di gloria, lì da sempre, che nei giorni scorsi ha oscurato le porte, staccato la luce, allungando la lista di coloro che proprio non ce la fanno più e, dunque, addio Piazza, con il cuore a pezzi, certo.
La contabilità
La chiusura di Ars Cenedese piomba tra le Procuratie ancora illuminate dalle luci di un Natale che non è mai arrivato, alla vigilia di un Carnevale che non ci sarà, dopo un anno finito malissimo con l’acqua alta del 12 novembre, e con quello successivo azzerato dalla pandemia. La contabilità di chi se n’è andato è quanto di più democratico esista, anche nel lusso, anche nel luogo simbolo che sembrava intoccabile: gioiellerie, uffici di cambio, souvenir, pelletteria e vetrerie. Vetrerie importanti. Venini, a ottobre; il mese successivo la Coupole Glass. Erano una di fronte all’altra, in Piazzetta dei Leoncini. I turisti entravano o di qua o di là, talvolta in entrambi i negozi, quando a San Marco bisognava fare a gomitate per passare e tutti a dire che non si poteva andare avanti così, che bisognava fissare un tetto, e che quel limite doveva essere di 20 mila turisti al giorno. Era esattamente un anno fa.

Le vetrine
Oggi che ventimila persone non arrivano nemmeno in un mese, nell’intera città, Piazza San Marco è l’altare del sacrificio più grande perché più grandi erano, insieme alle ambizioni, anche le certezze. Una vetrina all’ombra delle Procuratie era una polizza vita anche se costava (e costa) 10 mila euro ad arco; ma non tutti i proprietari dei fondi hanno immaginato che ridurre il canone di locazione nell’anno della pandemia sarebbe stato conveniente anche per loro e così, per quindici aziende su una cinquantina – una ogni tre – è stata la fine. «La situazione è difficilissima, i conti sono folli, gli affitti sono sicuramente la voce che pesa di più, spesso sono insostenibili a fonte di entrare ridotte a zero», dice il presidente dell’Associazione Piazza San Marco, Claudio Vernier. «Qui si chiacchiera, si chiacchiera e non si fa niente. La Piazza è stremata perché non ci sono più turisti e non ci sono neanche residenti. Ma per avere residenti bisogna che ci sia lavoro, e in ogni caso è indispensabile diversificare le attività, come la cantieristica, le grandi istituzioni internazionali, a dare agevolazioni fiscali in modo da incentivare le aziende a investire a Venezia».

I caffè
La Piazza autarchica, che non doveva chiedere mai, ora assiste alla propria implosione attonita. Chiudono i negozi, chi per sempre chi non si sa fino a quando, ma hanno abbassato le saracinesche e zittito le orchestrine anche i titolari dei caffè storici, dopo averle tentate tutte la scorsa estate, come Raffaele Alajmo del Gran Caffè Quadri, che per far sopravvivere il locale della Piazza e non mandare a casa i dipendenti aveva aperto un’osteria chic alla Certosa. Anche la resistenza, tuttavia, ha i suoi limiti; lo sa bene l’amministratore delegato della società Sacra che gestisce il Florian, Marco Paolini, che l’anno scorso ha fatturato 6 milioni e mezzo di euro in meno rispetto agli otto e mezzo che fattura normalmente.

I 300 anni del Florian, che avrebbero dovuto essere di festa, sono stati la quaresima di una crisi senza precedenti, dall’esito ancora incerto; come i cento anni della vicina gioielleria Nardi il cui titolare, Alberto Nardi, ha illuminato le sue vetrine il più a lungo possibile, praticamente senza avere clienti, come presidio morale e sociale, «perché è facile chiudere, ma poi è molto più difficile riaprire». A fargli compagnia, in questi giorni, sono una mezza dozzina di negozi, per lo più gioiellerie, come Tokatzian, Salvadori, Bevilacqua, tutti con la guardia giurata fuori dalla porta, il computer acceso, nemmeno la possibilità di bere un caffè tra colleghi. Rimasta senza voci, senza passi, la Piazza è un racconto all’incontrario, una trama che si disfa, come se una mano, lenta, costante, portasse via ogni giorno qualcosa. I negozi, certo; e poi la Basilica deserta, il campanile senza coda, i gradini delle Procuratie liberi, Palazzo Ducale sprangato, il molo della Piazzetta senza gondole, il pontiletto del Cipriani senza la navette con i cuscini color acquamarina, i Giardinetti reali nel gelo, la passeggiata fino all’Harry’s bar vuota, inutile, perché l’Harry’s Bar, come tutti i ristoranti è chiuso da Natale; e via via, in una sottrazione che non si arresta, fino all’essenza stessa della Piazza, cioè alle sue pietre. La catarsi che qualcuno vagheggiava, sicuramente non in questa forma, rivela nella loro interezza gli archi, i marmi, le colonne dell’infilata delle Procuratie. Rende plastici i mosaici della Basilica, gli altorilievi delle basi delle colonne di San Marco e San Todaro che qualcuno giura di non essere mai riuscito a vedere in passato.
Undici mesi fa
Spogliata, mentre il resto della città pian piano ha ripreso a vivere, la Piazza è rimasta nuda. Poco, quasi nulla, è cambiato dal lockdown di marzo dello scorso anno. Come una forza priva di resistenza, l’area marciana sembra essere ritornata alla vigilia di undici mesi fa, quando i fuochi delle pasticcerie cucinavano milioni di frittelle, i negozi i maschere ingrassavano, la bolgia del Carnevale premeva e la città scoppiava. Tanti, troppi. Qualcuno disse: mai più. —
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