Buranelle scomparse, caso archiviato. Da trent’anni è un mistero veneziano irrisolto

Il legale della famiglia: «Hanno avuto la sventura nella sventura di essere uccise nel ’91, oggi i colpevoli li avrebbero trovati»

BURANO. Per tutti sono “le buranelle scomparse”: Rosalia Molin e Paola Costantini, 25 e 29 anni. Nipote e zia, due amiche. Sempre insieme. Anche quel pomeriggio del 27 ottobre 1991, quando prendono la motonave a Burano per raggiungere Treporti e andare al cinema a Jesolo: ma svaniscono nel nulla. Unico segno da allora, la patente di Paola, restituita dalla laguna nel 1997.

Dopo 30 anni, la giustizia si arrende all’incapacità di risolvere il mistero: caso archiviato. Se per i familiari l’angoscia del dubbio su cosa sia loro accaduto può essere più maligna della verità più terribile - che siano state uccise - per i tempi della giustizia il punto è arrivato: il procuratore vicario Adelchi d’Ippolito (che ha ereditato il fascicolo dall’ex procuratore aggiunto Carlo Nordio) ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta per omicidio e occultamento di cadavere, facendo cadere ogni ipotesi di accusa a carico di Nicola Alessandro, l’ex fidanzato di Rosalia, che si è sempre detto innocente. L’unico attorno al quale sono ruotate in questi anni le indagini a spirali sempre più larghe.

La giudice per le indagini preliminari Marta Paccagnella ha chiuso il caso, mandando in archivio il fascicolo: «Non è mancata la ricerca di nuovi elementi utili per rafforzare il quadro», scrive, «ma i risultati sono insufficienti per l’esercizio dell’azione penale». Che ne è stato, di Paola e Rosalia?



Le poche certezze

Il poco che si sa è che a Treporti le due giovani donne arrivarono, quella domenica pomeriggio. Qui, però, la scoperta che la ruota della 126 di Rosalia aveva i bulloni allentati. E l’incontro con Nicola Alessandro, diretto al lavoro in una pizzeria di Ca’ Savio. Nella sua macchina sarà trovato uno svita-bulloni: agli investigatori dirà di essere andato a casa a recuperare l’attrezzo della sua vecchia auto, ma al suo ritorno le ragazze erano scomparse.

Le indagini: vicolo cieco

«Queste due donne hanno avuto la sventura nella sventura di venire uccise trent’anni fa: fosse accaduto oggi, con i media, i social e l'attenzione al femminicidio, le tecniche che ci sono oggi, le indagini sarebbero state fatte ben diversamente», commenta amaro l’avvocato Roberto Continisio, che da anni si batte a nome della famiglia Molin, perché non venga calato il sipario sul caso».

Il silenzio è fitto come la nebbia in laguna. Che per anni si sia girato a vuoto, lo testimonia una prima archiviazione già presentata nel 2013 dal pm Nordio. La famiglia si oppone e si rivolge anche a “Chi l’ha visto?”. Gli inviati riaccendono i riflettori sulle due giovani, arrivano segnalazioni da tutt’Italia: c’è chi dice di saperle affiliate a una setta. Naturalmente non è così. Eppure, tra tanto rumore, qualcosa si muove.

Le “dritte”, la violenza, il geo-radar

Nel 2014 sembra, infatti, arrivato il momento della svolta: la più crudele. Un teste parla di un assassinio dopo un tentativo di violenza sessuale. Dice che i corpi sono sepolti nell’area di un campeggio militare, al Cavallino. Anche un poliziotto racconta che una fonte gli ha detto che zia e nipote sarebbero state sequestrate da quattro uomini e condotte nel campeggio che si trova a Punta Sabbioni, poco distante dall'imbarcadero Actv di Treporti. Qui le cose sarebbero sfuggite di mano, Rosalia sarebbe stata uccisa da un colpo di pistola, forse durante una violenza sessuale di gruppo. La zia uccisa perché non parlasse. La pressione mediataca è incalzante, non si lasciano nulla di intentato e l’allora procuratore aggiunto Carlo Nordio fa due cose: da una parte manda gli abiti dell’ex fidanzato (da 25 anni in magazzino) Nicola al laboratori della Polizia scientifica di Roma, dall’altra ordina un’indagine archeologica, con georadar e badili, per passare al setaccio l’area dell’ex campeggio. I “nasi” della Scientifica riveleranno tracce di polvere da sparo su una camicia dell’uomo: «Contaminazione delle prove da parte di poliziotti che magari lo stesso giorno avevano sparato al poligono», taglia corto all’epoca l’avvocato difensore, Igor Zornetta. Intanto, nel campo, i sonar non rivelano alcun segreto: solo un carcassa di animale.

«L'indagine, giunta a quel punto», commenta oggi l’avvocato Continisio, «fondava le uniche possibilità concrete su 2 fonti confidenziali, che non sono mai state interrogate: dicono che non erano attendibili. Astrattamente, ma volete verificarlo? Se sono fanfaroni si vedrà». Sul punto la Procura ha chiesto nel 2019 nuovi accertamenti alla Mobile, che però ha risposto che «non sono emersi elementi effettivamente nuovi sui quali poter sviluppare nuove investigazioni».

L'appello: «Chi sa, si metta una mano sul cuore e ci permetta di piangerle»


L’archiviazione: cold case

Per i magistrati di Venezia tutto il possibile è stato fatto e non resta che arrendersi all’evidenza.

«Non sono emersi ulteriori aspetti, oltre ai numerosi già vagliati nei decenni di puntuale e approfondita analisi», scrive il procuratore aggiunto d’Ippolito, «e che a causa del tempo trascorso, dal 1991, non appare ragionevole contare in un arricchimento del materiale probatorio». Caso chiuso.

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