Antonio Scurati e il mare sopra Venezia

Da domani in libreria il libro del Premio Campiello 2005: è il XXI secolo, Venezia affonda ed è ricostruita dai cinesi
ANTONIO SCURATI. Ha abitato a lungo a Venezia
ANTONIO SCURATI. Ha abitato a lungo a Venezia
VENEZIA. AVenezia ha vissuto i suoi primi vent'anni, al Foscarini ha fatto il Liceo innamorandosi della filosofia dopo aver ascoltato Massimo Cacciari, a Venezia si è imposto come scrittore, vincendo nel 2005 il Campiello con Il sopravvissuto. Antonio Scurati era un predestinato, prima o poi un libro su Venezia avrebbe dovuto scriverlo e quel momento è arrivato. Da domani sarà in libreria La seconda mezzanotte (Bompiani, p.550, 19 euro) un libro ambientato nel futuro ma con solide radici nel presente.


Quanto ha contato l'aver vissuto a Venezia per scegliere l'ambientazione del libro?
«E' stato decisivo. Venezia è la mia città, sono in realtà veneziano, anche se per una serie di vicende sono nato a Napoli. Ed è un privilegio per uno scrittore. Se ci si pensa, i veneziani autentici della mia generazione sono già pochi, gli scrittori ancora meno e quindi scriverne era destinale».


Eppure ci sono voluti degli anni.
«Per uno scrittore ambientare un libro a Venezia è opprimente. E' una città che è stata molto dipinta, molto raccontata, molto immaginata ed è difficile darne una immagine nuova. Però una volta che ho deciso di raccontare in questo libro la decadenza della modernità occidentale era inevitabile ambientare il tutto a Venezia, che da tre secoli è il simbolo mondiale della decadenza. Così ho potuto spendere il mio privilegio di essere cresciuto in questa città».


La sua Venezia appartiene però al futuro, è quella del 2092, quindi reinventata, immaginata. Ricostruita dai cinesi dopo una catastrofe.
«C'è una componente visionaria, ma c'è anche la Venezia che io ho conosciuto da ragazzo. Ho proiettato nell'avvenire ed estremizzando qualcosa che a Venezia già c'è: il declino della vita autoctona, i cittadini subalterni agli stranieri, la perdita della dimensione di città autentica per trasformarsi in una specie di Disneyland del turismo. Io l'ho immaginata come una Las Vegas crudele del terzo millennio, luogo di piaceri estremi e vizi terminali, con piazza San Marco che è diventato il nuovo Colosseo dove i gladiatori si scontrano. Però, senza anticipare troppo del libro, c'è anche un momento in cui uno dei gladiatori fugge e scopre, aldilà del muro che delimita la nuova Venezia costruita dai cinesi, i residui della vita della città di un tempo, che ho raccontato sulla base dei luoghi della mia infanzia, trascorsa tra Castello dove vivevo e Madonna dell'Orto, dove andavo a giocare».


Di battaglie, della violenza dei combattimenti aveva già parlato nel suo primo libro,
Il rumore sordo della battaglia
, dove c'era anche una sorta di fascinazione per la violenza.
«Sì, questo romanzo si ricollega al mio primo libro. Lì però raccontavo, con la battaglia di Fornovo, la fine della guerra cavalleresca, l'alba della battaglia intesa in senso moderno. Qui racconto invece la fine del sogno, della illusione della modernità europea. Quindi tornano i gladiatori, e per raccontare le loro battaglie mi sono documentato cercando di essere fedele al passato. Così come mi sono documentato per raccontare il futuro, la trasformazione della laguna in palude».


E la violenza?
«Io credo che raccontare in un libro la fascinazione per la violenza sia virtuoso. Noi siamo cresciuti assistendo alla violenza come spettatori. Abbiamo visto le guerre in diretta, abbiamo decretato il trionfo della cronaca nera, non conosciamo la violenza ma abbiamo instaurato un rapporto vizioso con la sua visione. Credo invece che raccontare il fascino della violenza attraverso l'arte abbia una funzione opposta, rivelatrice, perché denuncia la visione gladiatoria, sanguinaria in cui abbiamo vissuto negli ultimi venti anni».


Ma perché raccontare tutto questo al futuro?
«Finora ho alternato un romanzo ambientato nel presente ad uno ambientato nel passato. Mi mancava il futuro, che è forse la cosa più difficile. E' vero che ognuno racconta in fondo sempre la propria storia ma sono convinto che noi siamo troppo schiacciati sul presente. Credo che sia compito di uno scrittore anche guardare oltre, cimentarsi col passato e col futuro, testimoniare anche ciò che non ha vissuto».

Riproduzione riservata © La Nuova Venezia