Radic: la guerra, una carriera interrotta e ora la partita più difficile: «Ce la farò»

Ha sfidato Federer e Nadal, un infortunio ha infranto il suo sogno: il tennista croato da anni vive a Spinea e racconta la sua battaglia con il cancro 

SPINEA.

Lottare e vincere, due verbi che caratterizzano da sempre la vita di Mario Radic, 38enne croato che ha trovato, tra Spinea e Mestre, la sua nuova casa. Dalle bombe dei caccia serbi su Spalato agli infortuni alla spalla che ne hanno minato la carriera, Radic si è sempre rialzato, e lo ha fatto anche in questi ultimi lunghi mesi, impegnato in un’altra partita: quella contro il cancro, scoperto per caso nell’autunno scorso. Ora sogna di tornare in campo al più presto perché il tennis è la sua vita, condivisa con chi non lo ha abbandonato neppure un istante.



Oggi come si sente?

«Vivo, mi manca il tennis giocato, ma ho un’altra possibilità. Desidero ringraziare tutti: dai medici dell’Ospedale dell’Angelo alla mia famiglia, dai compagni agli avversari, fino ai gestori dello Sporting Mestre, il circolo dove insegno».

Una malattia scoperta oltretutto quasi per caso.

«Avevo dolori allo stomaco, ma non ci facevo troppo caso. Nel novembre scorso, il giorno del compleanno di mia moglie, sono stato operato. La scoperta di cosa mi aveva preso fegato e intestino, l’avevo fatta poche settimane prima. Ho ignorato un po’ quel che mi diceva il corpo, dando colpa all’alimentazione e allo stress».

Una battaglia durata fino a pochi giorni fa.

«È stata dura, ma ho affrontato la situazione in maniera propositiva, pur essendo pessimista. Tante persone mi hanno dato la forza per farcela».

E ha giocato fino a poco prima di sentirsi male.

«Infatti, compreso l’Open del Tc Mestre. Mai avrei immaginato tutto questo. All’improvviso ho preso uno schiaffo in faccia, ho passato quasi due mesi in ospedale. Pensavo tantissimo al tennis, se e come tornare a giocare. A volte cose ridicole rispetto al male, ma in quei momenti ti aggrappi a ciò che ti dà più forza».

Le prospettive ora?

«Non accetto l’idea di smettere di giocare. A febbraio ero già in campo a insegnare per trovare la forza. Adesso non è ancora finita, ma le cure procedono bene. Spero di tornare in campo in autunno».

Come ha vissuto la quarantena?

«Questa emergenza sanitaria mi ha permesso di restare tranquillo a casa, per guarire e godermi la famiglia».

Il tennis per certi versi l’ha salvata, ma dove nasce questa passione?

«Ho cominciato questo sport a 7 anni, giocavo anche a basket, però ero piccolo per gli standard croati. Erano gli anni in cui dominava la Jugoplastika di Kukoc e Radja. Preferivo però lo sport individuale, dove potevo incazzarmi da solo se sbagliavo qualcosa».

Erano anni di guerra.

«In quel periodo mio padre consegnava la carne con il camion alle prime linee croate, di solito lo faceva ai supermercati. Mia madre era maestra di asilo, e noi correvamo nei rifugi quando sentivamo le sirene. Le bombe serbe cadevano, ma a Spalato non abbiamo vissuto nulla rispetto a ciò che la gente ha passato a Vukovar o Sarajevo. Siamo stati fortunati».

Ha avuto mai paura?

«Da piccoli non si capiva molto, e a casa non guardavamo mai la televisione. Quando i caccia passavano tre metri sopra la testa, però, te ne accorgevi. Ricordo le finestre delle case sbarrate. Almeno non avevamo il problema dei cecchini».

Alla sua famiglia deve tutto per la carriera di tennista.

«Sì, da mio fratello maggiore Teo a mio padre che lasciò perfino il lavoro per seguirmi ovunque, fino a mia madre che rimase a Spalato».

Gli infortuni sono iniziati presto.

«Una stupidissima caduta a scuola a 10 anni, e il braccio destro è andato in frantumi. Da lì è partito il problema che poi, nel 2005, mi ha fatto smettere a livello Atp. In guerra non era facile farsi curare bene dalle nostre parti».

Il Lemon Bowl di Roma diede la svolta.

«Con mio padre dormivamo in auto, ma trovai un aiuto in Ferdinando Itrec, che poi mi ospitò a Verona dopo aver vinto quel torneo nella capitale. A 17 anni andai a Barcellona alla corte di Pato Alvarez e spiccai il volo. Tanti tornei giocati, le qualificazioni agli Slam, compreso il Roland Garros che per me è il top. Purtroppo soffrivo molto l’emozione, e a volte buttavo via le partite».

I ricordi delle sfide con Federer e Nadal?

«Roger lo incrociai da Under 16 e mi diede una “stesa” allucinante. Era fuori dal mondo già a quella età, e ha dimostrato come un ragazzo possa cambiare di carattere e diventare un numero uno assoluto. Quando smetterà lascerà un vuoto incolmabile come tutti i campionissimi. Nadal mi sconfisse due volte, ed era un lottatore già da ragazzino».

Con Agassi?

«Persi nelle qualificazioni a Parigi e mi ritrovai ad allenarmi con lui. Vinsi 7-6 giocando alla grande. Mi guardò e disse: “A che punto sei del tabellone?” . Non credeva che fossi già uscito. Mi diede molti consigli, una persona incredibile. Quando lessi la sua biografia, “Open”, feci fatica a capire quanto odiasse il tennis, ma forse è stato quello a dargli la forza per vincere tutto».

Fognini si ricorda di lei...

«Nel 2005 giocammo contro, era sotto 6-1 5-2, ma la mia spalla fece crack. Rimasi in campo comunque, perdendo 0-6 al terzo. So che di quella sfida ne parla ancora».

Quando la rivedremo in campo?

«Spero prestissimo. Non importa vincere, basta riprendere il ritmo. Mi mancano le sfide eterne negli Open con Speronello e Ghedin, e poi ho accettato di diventare capitano della squadra di Serie B al Tc Ca’del Moro, un’altra famiglia in cui mi sono trovato benissimo. Tre titoli italiani Over 35 lo dimostrano. E insegno allo Sporting Mestre. Quando vivi certe esperienze, affronti la tua vita in modo diverso». —

Simone Bianchi
 

Riproduzione riservata © La Nuova Venezia