Livio Di Rosa, il grande maestro dimenticato dalla federazione

La rabbia dei suoi allievi-campioni. Ha portato il nome di Mestre nello sport mondiale ma anche la città non lo ha ricambiato


MESTRE. Dimenticato dalla Federazione, sconosciuto alle nuove generazioni, ricordato dai suoi ex allievi divenuti campioni o maestri. La storia di Livio Di Rosa fa riflettere, perché è ritenuto un caposcuola della scherma, un uomo che ha rivoluzionato il fioretto con le sue idee, ma alla fine il suo nome non è associato neppure a un trofeo per esordienti nella disciplina.



Nato nel 1912 a Livorno, fu schermidore a sua volta quale allievo di Beppe Nadi, quindi si diede all’insegnamento migrando nell’ex Cecoslovacchia e in Egitto, dove si salvò miracolosamente da un disastro aereo in cui perì l’intera nazionale. Si narra che il suo domestico “lesse” il futuro nei fondi di caffè, facendogli far tardi per perdere il volo. Poi l’arrivo a Mestre sotto la presidenza Nonino, e la nascita della scuola mestrina che ha dettato legge per tre decenni vincendo l’impossibile nel mondo, a partire da Fabio Dal Zotto, oro a Montreal ’76. «Quando si parla di caposcuola della scherma c’è solo Di Rosa» sentenzia Andrea Cipressa (foto in basso), Ct azzurro del fioretto.

«Ha rivoluzionato la disciplina, e oggi quasi tutti fanno lezione come noi che eravamo suoi allievi. Se potessi gli direi grazie per avermi insegnato ad amare la scherma. A una gara giovanile a Jesolo, qualche anno fa, ci siamo guardati tra le pedane, ed eravamo tutti maestri usciti da Mestre». Fabio Galli (foto qui a destra), che insegna a Frascati e al Gs Carabinieri, aggiunge: «È triste pensare che non sia più con noi, per quel che ci dava. Era un genio con una conoscenza della scherma che nessuno mai ha avuto. Innovatore tecnicamente e nei rapporti umani, lo potevi solo amare, e ha insegnato ai suoi allievi la bellezza e l’amore per questo sport, e cosa significhi fare il maestro e l’educatore». Di Rosa parlava poco ma trasmetteva tantissimo, e Dorina Vaccaroni, che insegna in California, ricorda: «Era il mio maestro, amico e insegnante di vita. Se oggi sono quella che sono, lo devo a lui e ai miei genitori». Massimo Omeri, manager all’Aspire Academy di Doha in Qatar, è sicuro: «È stato un maestro che ha introdotto innovazioni di così grande portata da risultare di fondamentale importanza ancora oggi. Il vero e unico caposcuola della scherma italiana del dopoguerra. Personalmente gli devo moltissimo, specie la grande conoscenza della tecnica che mi ha tramandato».



A livello di scherma, i “figli” di Livio Di Rosa sono ovunque. Da Bortolaso in Germania a Tradori in Perù, passando per Borella, Bortolozzi, Tosoni, Lamastra, Berton, Galvan e Ganassin sparsi per il Veneto. Ma anche i fratelli Dal Zotto, Bressan o Nosari. «Per me è stato come un secondo padre» dice Mauro Numa, maestro dell’astro nascente Martina Favaretto. «Ci stimolava con il suo carisma, era un perfezionista e pretendeva il massimo. Purtroppo la Fis non ha mai riconosciuto il valore di uno dei maestri più grandi al mondo». Per Vittorio Carrara «dire che Di Rosa fosse un genio è scontato ma vero. Era un artigiano della scherma e copiarlo è impensabile. Pretendeva il massimo e le sue idee sono sempre attuali». Al Petrarca Padova insegna Ugo Galli, uno dei maestri formati da Di Rosa, che dice: «Era mostruoso, si faceva capire anche a gesti, e per lui ci saremmo gettati anche nel fuoco. Stiamo continuando a tramandare i suoi insegnamenti sapendo di fare qualcosa di speciale e unico».


Di Rosa morì il 12 settembre 1992. Sulla lapide del suo loculo, al cimitero di Mestre, c’è solo un fiorellino finto e una pagina plastificata con su scritto: «Ha fatto conoscere al mondo il nome di Mestre». Ma la città non l’ha ricambiato, e non è la sola. —


 

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