Il Drake? Unico E quanti brividi a Indianapolis

A tu per tu con uno dei più grandi costruttori della storia dell’automobilismo mondiale

MESTRE. Gian Paolo Dallara: nato il 16 novembre 1936…

«Esatto: scorpione...»

...stesso giorno, mese ed anno di Skip Barber.

«Un mito, fondatore di una grande scuola piloti degli Stati Uniti. Non sapevo».

E stesso giorno e mese, anche se anno diverso, di Tazio Nuvolari…

«… Ma no. . !»

Christian Horner (team manager della Red Bull), Edmondo Fabbri (ex c.t. della nazionale calcio), Josè Saramago (premio nobel letteratura), Raymond Peynet (il disegnatore della coppia di innamorati simbolo di San Valentino) Hector Cuper (ex tecnico Inter). Si sente in buona compagnia?

«Assolutamente onorato».

Gian Paolo, Giampaolo o Gianpaolo?

«Nei primi documenti, Gianpaolo. Poi, Gian Paolo. Adesso, sempre più spesso Giampaolo».

Dovendo firmare un assegno?

«Faccio più possibile velocemente e non ci bado».

A 30 anni aveva già in curriculum Ferrari, Maserati, Lamborghini. Sempre in movimento: ansia? Voglia di eccellere?

«Desiderio di scendere in pista. Ed un pizzico di incoscienza, forse: non mi rendevo conto di quanto avessi ancora da imparare».

Primo lavoro, Ferrari.

«Cercavano un giovane ingegnere...”

Grandi anni.

«Dirigeva il reparto corse Carlo Chiti. Eravamo una decina, e progettavamo tutto: F. 1, auto per gare di durata, di salita… motore, telaio, cambio».

Poi la Maserati…

«E il grande rimpianto di non aver avuto il coraggio di confessarlo ad Enzo Ferrari. Gli dissi che desideravo andare a lavorare con mio padre».

E quando Enzo Ferrari scoprì la verità?

«Se la prese molto. E con molta ragione».

E poi?

«E poi, è stato lui stesso a darmi modo di riallacciare i rapporti. Un giorno è venuto a Varano per provare una F.1. Ho ancora negli occhi l’immagine di Enzo Ferrari seduto su una panchina, all’aperto. Attorno i ragazzi del paese. Lui raccontava. Loro ascoltavano, affascinati. Eh: a quei tempi personaggi anche famosi beneficiavano raramente di passaggi televisivi. Quante volte poteva capitare di trovarti a tu per tu con Ferrari?».

Poi, Lamborghini.

«Devo ammetterlo: ci voleva coraggio, per sfidare Ferrari sul terreno delle vetture sportive stradali. Ferruccio Lamborghini quel coraggio lo aveva. A quei tempi, mentre le corse avevano dimostrato che l’architettura migliore, per un’auto, era motore centrale, le Gran Turismo continuavano a proporsi con motore anteriore. Ho detto a Lamborghini: e se ne facessimo una a motore posteriore? Mi ha risposto: e perché no? È nata la Miura...».

Bel gruppo di lavoro, quello: Dallara, Giotto Bizzarrini, Paolo Stanzani, Marcello Gandini (Bertone)…

«Sono orgoglioso che ci sia stato del mio”.

C’è qualcosa che le dà altrettanto piacere?

«Constatare quanto sia aumentata la sicurezza delle auto, da pista e da strada, e la sicurezza dei circuiti».

Come si lavora in America? E con l’America?

«Bisogna capire le esigenze degli organizzatori e rispettarne le aspettative. I team non si accontentano di concorrere ma vogliono anche personalizzare la vettura. Possiedono, per i componenti, una libertà che in altre condizioni non avrebbero. Siamo aiutati dal fatto che le distanze ormai quasi non esistono, possiamo recapitare spesso in 24 ore e sempre in 48 componenti che produciamo qui e sono attesi là. Abbiamo un simulatore a Varano ed uno, identico, ad Indianapolis. Un pilota può effettuare prove là ed i tecnici sono in grado di vederne, praticamente all’istante, gli effetti qua. È davvero come lavorare tutti quanti assieme, nel medesimo posto».

È cambiata la competizione?

«Ricordo la prima volta nella quale mi sono recato con Enzo Ferrari nel suo Ufficio Riunioni. C’erano, in bella vista, una serie di pezzi rotti: biella, pistone, cuscinetto, portamozzo… una sua affermazione era: si può sbagliare, ma una volta sola. A quel tempo, l’evoluzione tecnica era lineare: osservando il passato, si poteva prevedere il futuro. Poi, sono intervenuti i computer. E lo sviluppo da lineare è divenuto esponenziale: nonostante i simulatori ed i sistemi di calcolo, l’innovazione è talmente rapida che gli errori possono essere più grandi e difficilmente rimediabili, rispetto ad anni fa. Supponiamo per esempio che ci si concentri sulla evoluzione del motore: ma se quell’anno è invece l’aerodinamica a garantire vantaggi maggiori, il problema è serio».

Ha mai provato, nei test, le sue vetture?

«Le prime prodotte da indipendente. Su 600 metri di percorso beccavo un secondo. Non il mio mestiere».

Si dice che gli spettatori siano proporzionali ai sorpassi.

«Gli organizzatori di GP2 e GP3 ci chiedono di studiare vetture che favoriscano i sorpassi. Perché succeda, bisogna che la vettura che precede disturbi poco quella che segue, in modo che la seconda si possa accodare, sfruttare la scia e superare la prima. Per converso, la vettura più efficace è quella che sente pochissimo l’effetto della turbolenza di quella che la precede, ma lo fa sentire molto a quella che segue...».

La gara più bella?

«La prima vinta. E le 500 miglia di Indianapolis: tutte. Lo spettacolo della sera prima, 200 mila camperisti non solo a vedere lo spettacolo, ma anche a proporlo. E 400 mila spettatori il giorno di gara”.

Dove ha costruito la prima fabbrica, a Varano?

«Accanto al campo da calcio ed alla chiesa. E ci siamo tornati: ora le Dallara stradali si producono lì. Altra produzione, invece, in luoghi diversi”.

E dove ha eretto la sede di Indianapolis?

«In una traversa di fronte all’ingresso principale dello Speedway. Accanto a Carpenter».

Un pilota a cui è particolarmente legato?

«Molti. Ma specialmente Alessandro Zanardi. Dopo la vittoria alle Paralimpiadi di Rio, mi ha spedito un sms: è il momento di ritirarsi, diceva. Dieci secondi dopo, un altro: non sono mica così sicuro. Adesso sta tentando di recuperare, con la tecnologia e nuove forme di allenamento, quello che sa di essere destinato a perdere come forza fisica».

Parliamo di passioni…

“Volentieri. La lirica: ho amici americani che invito ogni anno. Cerco di averli qui nel periodo in cui c’è il festival Verdi. Li porto al teatro di Busseto, che pare un ambientino di corte: bellissimo. Sanno di avere tutto, in America. Ma escono da lì con le orecchie basse. Lo ammetto: questi sono anni in cui mi piace stravincere...”.

Bel canto, quindi. Poi?

«Ah, lo scopone scientifico! Quattro carte in tavola, settebello un punto, re niente, lingua ufficiale dialetto. Un gioco raffinato, da risolvere anche con l’uso opportuno della arlìa. Parola dialettale, che significa sfottere l’avversario. Con affetto. Ormai, alla nostra età, siamo rimasti in cinque; quattro giocano, ed uno fa da supplente. Ci siamo conquistato il diritto di sfotterci, abbiamo trascorso tutta la vita assieme, giorni belli e giorni brutti. Abbiamo deciso di far propaganda tra i giovani, proponendo un corso di scopone. Ci hanno risposto che avrebbero acconsentito solo a patto che noi firmassimo per uno di burraco. Non aderiremo».

I momenti più belli?

«Quelli trascorsi con i miei nipoti. Lasciamo a casa i vecchi – per vecchi intendo mia figlia e suo marito – e ce ne andiamo in giro da soli. Due anni fa abbiamo passato il capodanno a Marrakesh. Indimenticabile”.

Marocco: Africa. Lei aiuta un villaggio in Sierra Leone.

«Ricevo, in gratificazione personale, molto più di quello che do».

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