Carmelo Nucifora, una sfida ai suoi limiti: «Quel giorno vidi le barche nel deserto»

MESTRE.
Correre e portare a termine una maratona – ovvero 42,195 km – è già da ritenersi un’impresa titanica. Figuriamoci chi si mette in testa di partecipare e portare a termine una corsa di oltre duecento chilometri per un totale di circa trenta ore a volte senza mai o quasi fermarsi. Una vera follia o forse semplicemente la voglia e soprattutto la volontà di sfidare se stessi senza necessariamente l’assillo della vittoria finale. Di questo aspetto Carmelo Nucifora, mestrino, 54 anni, ne ha fatto quasi una ragione di vita. Diventando l’ultramaratoneta più famoso della nostra città, tra l’altro autore di imprese al limite dell’umano.
Lei da ragazzo non era un grande appassionato delle corse prolungate. Poi cosa è cambiato?
«Nel 1996, all’epoca avevo trent’anni, frequentavo una palestra così come tanti amici e colleghi. Con uno di questi andammo a fare una banale corsetta per sciogliere i muscoli e durante il tragitto mi disse che secondo lui avevo un bel “motore”, nel senso che ero molto sciolto nella corsa e potevo provare la maratona di Venezia. Al momento non ci pensai, però tutto sommato la cosa mi allettava e così decisi di partecipare a quella maratona che fu in assoluto la mia prima esperienza, anche se devo dire che corsi con un paio di scarpe che poco c’entravano con il running e pensai che quella sarebbe stata la mia prima e ultima maratona. Invece due anni dopo nel 1998 un amico mi chiese di fargli da “assistente” per la famosa cento chilometri del Passatore. Ne rimasi così affascinato che l’anno dopo nel 1999 decisi di disputarla. Arrivai fino alla fine, ma con dolori allucinanti alla gamba destra. Pensai che se mi fossero passati avrei disputato nuovamente quella corsa, che feci nel 2004. Anche se i problemi di postura mi sono rimasti ma grazie a dei plantari speciali riesco a sopportare il dolore e correre meglio. Prima di quell’episodio, nel 2000 venne a mancare un mio carissimo collega fondamentale per la mia attività di ultrarunner, nel senso che prima di ogni gara e anche al ritorno vado a trovarlo in cimitero dedicandogli la mia gara. La medaglia che presi nel 2011 al termine della massacrante Badwater Ultramarathon (219 km nella Death Valley in luglio a 50 gradi) l’ho appesa sulla sua tomba. Andai a trovarlo anche nel 2005 quando non riuscii a portare a termine la Nove Colli Running di Reggio-Emilia di 202 kmi. Mi fermai dopo 30 chilometri».

Come sta vivendo questo periodo di emergenza sanitaria e come si allena?
«Lo sto vivendo un po’ come tutti credo, con molta apprensione e non nascondo la paura. Paura che cresce quando penso ai miei genitori che sono molto anziani e mi assale l’angoscia. Però essendo positivo come persona cerco di reagire e sto già programmando le prossime gare. Due sono saltate, la 110 KM in Marocco prevista nello scorso marzo mentre in giugno dovevo disputare la prima edizione della Run to Glory, 367 km da Sparta alle Termopili per i 2500 anni della famosa battaglia. Mi dispiace perché è un periodo che sto bene e anche l’ernia al disco di cui soffro non mi dà alcun fastidio. Quindi ho programmato in settembre la Spartathlon che ho corso già cinque volte e voglio concluderla in meno di 36 ore e poi in novembre la Phidippides Run di 490 km tra Atene-Sparta-SAtene in meno di 105 ore. Mi alleno un po’ a casa dove ho un tapis roulant e poi corro tra i vialetti del condominio per tre o quattro ore al giorno.
Secondo lei si potrà correre la maratona di Venezia?
«Venezia è in ottobre, tra l’altro una gara con circa ottomila maratoneti ed è quella che vanta il più bel finish line del mondo. Si potrà disputare solo se l’emergenza sanitaria sarà un ricordo, se sarà alle spalle, altrimenti è impensabile correre con misure di sicurezza e distanziamento tra gli atleti».
Tra i suoi ricordi le gare più sofferte?
«Sicuramente nel 2014 nell’Oman una corsa di trecento km, una non stop di 86 ore dove dormivo a rate circa ogni sette ore per una mezz’ora. Sulle dune la sabbia nonostante le ghette e i collant entrava dentro le scarpe provocando delle abrasioni lancinanti con vesciche pazzesche. E poi le allucinazioni al punto che credevo di essere lungo un pontile pieno di barche e vedevo le montagne innevate. Anche nella Death Valley di 217 km ho trascorso un orrendo momento. I medici dovettero immergermi in una piccola piscina perché ero disidratato ed ero andato in ipotermia e in stato confusionale. Nonostante ciò ripresi la corsa finendo in 4h3’.
C’è un atleta in particolare che le dà emozione?
«Assolutamente il greco Yannis Kouros detto “il Dio greco della corsa” . Vanta i primati della 1000 Km, 1000 miglia, 48 ore e 6 giorni, un mostro. E poi il mio amico friulano Ivan Cudin che ha vinto la Spartathlon tre volte. Un grande atleta, ma soprattutto un grande uomo, di un altro pianeta».
Come mai lei è così attratto dalla Grecia?
«Il clima, il mare meraviglioso e soprattutto la mia amata Corfù dove spero di andare ad abitare nel futuro. E poi va detto che il mio cognome Nucifora deriva dal greco Nikiforos che significa “vittorioso, portatore di vittorie” e in Grecia gli organizzatori mi incitano chiamandomi così».
Ma alla fine a 54 anni cosa la spinge ancora a disputare queste fatiche?
«La mia età è molto diffusa in queste gare, sono pochi gli atleti con meno di 40 anni. I giovani non hanno la mentalità per queste fatiche, perché quello che conta non è il fisico ma la mente. Con l’esperienza ho imparato a sopportare i dolori e la fatica e sono affascinato dalla sfida perenne con me stesso. Ho un sogno: vedere l’ultramaratona inserita nelle discipline olimpiche...» –
VALTER ESPOSITO
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