Viaggio e alterità in mostra al Ghetto, si segue il fil rouge della Biennale
Il presidente della comunità ebraica: «Il Ghetto oggi è uno spazio d’accoglienza, aperto all’arte»

La migrazione, tema attorno al quale si sviluppa la 60^ edizione della Biennale d’Arte, “Stranieri ovunque”, arriva anche al Ghetto ebraico di Cannaregio con l’esposizione “I confini dell’alterità”. La mostra, che aprirà al pubblico domenica 21 aprile, coinvolge 10 artisti internazionali contemporanei – quattro di questi per la prima volta impegnati in un’esposizione in Italia - in una riflessione attualissima sul tema del viaggio, perseguito o subito, e della crisi dell’identità culturale che ne può conseguire.
«Non c’è forse luogo, più del Ghetto di Venezia, che possa indicare la strada della convivenza fra diversi. Costruitosi nel sospetto, ospitato con la diffidenza dedicata a ogni diversità, il Ghetto si offre oggi come spazio di accoglienza, uno spazio aperto che afferma il principio dell’ospitalità, e avvia, attraverso l’arte, un dialogo con l’altro, in una diversità di origini e di lingue che raccontano l’illimitata diversità delle storie» ha commentato Dario Calimani, Presidente della Comunità ebraica di Venezia.
Nelle opere esposte, lo scontro potenzialmente destabilizzante con l’altro diventa confronto e occasione fondante di definizione di sé. I “confini dell’alterità”, come recita il titolo dell’esposizione, non sono limiti invalicabili, ma luoghi di incontro tra storie e culture, spazio in cui ci si specchia nell’altro e in sé stessi e si affondano le radici della memoria individuale e collettiva. Non manca, infatti, il fil rouge storico che lega l’arte contemporanea in mostra con l’intera area di Cannaregio, dove nacque nel 1516 il Ghetto, quale luogo di confinamento di ebrei, che mai ottennero il diritto di cittadinanza da parte della Repubblica veneziana.
«Gli artisti coinvolti provengono da Francia, Germania, Stati Uniti, Israele e Giamaica. La scelta di persone che lavorano in ambito internazionale, senza etichette di appartenenza o credo religioso, ha costituito il prerequisito per poter partecipare alla mostra» ha spiegato Marcella Ansaldi, Direttrice del Museo Ebraico di Venezia, «mettere culture, sensibilità e conoscenze a confronto sul tema dell’alterità, ha prodotto una interessantissima esperienza artistica e umana, ogni artista a proprio modo ha saputo declinare attraverso pittura, scultura, videoarte e suono, il tema proposto».
Le opere
All’interno della mostra - che avrà luogo in tre spazi del ghetto: Ikona, Lab e Azzime – si potranno trovare opere pittoriche come quella di Amit Berman, “A Transferable Safe space”, realizzata dopo un periodo in cui l’artista ha vissuto lontano dalla famiglia, dagli amici e dall’intimità della sua casa in Israele. Il dipinto riflette il suo mondo interiore e il bozzolo che l’artista ha creato per sé all’interno di un ambiente estraneo, diventa così metafora visiva della tensione e del compromesso tra il conservare le proprie radici e l’adattarsi a un nuovo contesto culturale.
Saranno presenti installazioni caratterizzate dalla caducità come quella presentata da Lucas e Tyra Morten: "Viga”, ovvero un’intera struttura fatta di cera e che brucia lentamente fino a consumarsi completamente col tempo. Questo processo di combustione diventa metafora della dissoluzione del sé durante il processo migratorio, mentre la metamorfosi perpetua qui rappresentata riflette il continuo adattamento dell’individuo ai nuovi ambienti e contesti.
Si serve dell’animazione 3D Yael Toren che presenta in mostra due video: “Pieta” e “Dis-tense/Terracotta” e due manufatti: “Chopsticks” e “Hands Up Pieta”. In questi lavori l’artista unisce religiosità e tecnologia, servendosi di quest’ultima per sollevare questioni etiche riguardanti il tema dell’Altro e della sua Alterità. Con la sua arte, Toren guida il visitatore in un viaggio filosofico caratterizzato da un forte dualismo attorno al tema attuale dell’etica che al tempo stesso diventa un’esperienza mistica travolgente.
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