Una “volpe” sul Matajûr: tutti prigionieri di Rommel

Allora tenente venticinquenne, il formidabile stratega dilagò con i suoi fucilieri Da Tolmino al Piave. «Gli italiani esterrefatti si arrendono»: 3 mila 500 prigionieri
Nello sfondamento di Caporetto, l’evento strategicamente più importante occorso sul fronte alpino nel corso della Grande Guerra, del quale in questi giorni si ricorda il centenario, ebbero un ruolo fondamentale i reparti germanici, disimpegnati dal fronte orientale dove si preparava la rivoluzione d’ottobre.


Tra loro c’era il venticinquenne tenente Erwin Rommel, con i fucilieri del Württemberg Gebirgs Bataillon, alla cui abilità e al cui azzardo, si lega la rapidità dell’avanzata da Tolmino al Piave.


Lo racconta la futura “volpe del deserto” nel suo Infanterie greift an! (Fanterie all’attacco), memoriale uscito in Germania verso la fine degli anni ’30 e ristampato dalla Leg.


Nella notte del 25 ottobre Rommel attende l’ordine di avanzare, sul ripido pendio della sinistra Isonzo, senza direttive precise: «Per quanto riguarda il piano generale dell’operazione», annota «ne sappiamo molto meno del primo tenente austro-ungarico Maxim» (un ufficiale che aveva disertato portando con sé i piani dettagliati dell’offensiva sull’asse Tolmino-Caporetto-Plezzo, mai presi in considerazione dai comandi sabaudi).


Alle 8 del 24 ottobre arriva l’ordine di attacco, e Rommel scatta davanti a tutti.


Con poche centinaia di uomini, punta tutto sul fattore sorpresa, contraddicendo i principi strategici in uso.


Trascura il controllo delle cime e passa nelle valli per attaccare le posizioni dominanti alle spalle confondendo i presìdi, convinti di essere ormai stati scavalcati e tagliati fuori.


Ai fucilieri viene concesso pochissimo riposo, perché il fattore tempo è fondamentale per garantire l’effetto sorpresa.


Quando, un paio di chilometri oltre il fronte, Rommel intercetta un reparto italiano in ripiegamento, fa altri duemila prigionieri, e ignora l’ordine di fermarsi: l’avanzata prosegue, isolando costantemente gruppi di soldati nemici.


«Esterrefatti, i soldati italiani voltano la testa e ci guardano. I fucili scivolano dalle loro mani. Sanno che la partita è perduta e fanno cenno che vogliono arrendersi. I miei gruppi d’assalto non sparano un solo colpo.


Ma non solo il presidio della posizione esistente tra noi e Jevscek (circa tre compagnie) cessa la lotta; con nostra grande meraviglia anche il presidio delle trincee nemiche più a nord, fino alla strada del Matajur compresa, getta le armi.


La furibonda sparatoria alle loro spalle e la comparsa dei deboli gruppi d’assalto sul pendìo nordest dell’altura situata cinquecento metri a nordovest di Jevscek hanno fatto perdere la testa ai soldati italiani».


Episodi del genere si ripetono.


Rommel annota di aver preso prigionieri 3500 nemici e di aver avuto dei grattacapi solo per disarmarli e incolonnarli.


La presa del Matajûr spalanca la visuale sul Friuli. Contemplando «le ubertose campagne intorno a Udine, il quartier generale di Cadorna», e il lontano brillare dell’Adriatico, forse il tenente coltiva già l’idea, all’apparenza folle, di fermare la ritirata della IV Armata, che dal Comelico e dal Cadore sta scendendo la valle del Piave.


Superata Cividale, il Württemberg Battalion, attraversa il Torre in piena, e prosegue «per Rizzolo, dove la popolazione ci saluta con molta cordialità, per Tavagnacco, e per Feletto dove incontriamo gli altri elementi del battaglione che hanno varcato il torrente sul ponte di Salt».


Varcato fortunosamente il Tagliamento, occorre forzare il passaggio delle Alpi Carniche e delle Dolomiti d’Oltrepiave sull’asse Meduno-Claut: al mattino del 7 novembre, verso i quasi 1500 metri di Forcella Clautana, dove c’è già la neve, il fuoco di sbarramento italiano costringe i fucilieri a ritirarsi.


«Sono molto arrabbiato per l’esito di questo attacco notturno. Dall’inizio della guerra è il primo attacco che non mi riesce», rileva Rommel.


Ma l’indomani, misteriosamente, il valico è sgombro. E comincia una gara di inseguimento per Claut, Cimolais ed Erto.


Rimane il tratto più a rischio, la gola del Vaiont, con ponti che potrebbero essere fatti saltare e gallerie che potrebbero venir bloccate da una sola mitragliatrice.


Ma non c’è resistenza, e subito fuori dalla stretta, si spalanca la valle del Piave, percorsa da molte migliaia di uomini, che stanno scendendo dal fronte alpino orientale.


Di nuovo, a Rommel si presenta il dilemma: soprassedere, rimanendo sulla sponda sinistra del fiume, o provare un attacco contro forze enormemente superiori? E di nuovo la scelta è quella di attaccare.


A un certo punto la sorte sembra volgere a sfavore del Württemberg, perché, vista la loro superiorità numerica, gli italiani potrebbero annientare i tedeschi.


Ma, dalla descrizione di Rommel, sembrerebbero combattere solo allo scopo di sfuggire alla presunta morsa del nemico. Rommel coglie l’occasione per anticiparli ancora, facendo credere loro di essere accerchiati.


E l’indomani, a sorpresa c’è la capitolazione delle forze italiane: «Non essendo le truppe che si trovano in Longarone in condizioni di potere oltre resistere questo Comando si mette a disposizione di codesto e attende disposizioni da cotesti. Maggiore Lay».


«Tra il giubilo degli italiani che gridando “Viva la Germania”» fanno ala al nostro passaggio, avanziamo sulla strada verso Longarone», chiosa Rommel.


«Piove quel mattino del 10 novembre. Le strade di Longarone si vuotano un po’ alla volta dei soldati italiani che vi sostavano. Montagne di armi sono accatastate sulla piazza del mercato dove vengono consegnati anche pezzi di artiglieria italiani. Il bassopiano del Piave ßrigurgita ora di prigionieri. Complessivamente hanno deposto le armi oltre diecimila uomini, vale a dire un’intera divisione italiana. La nostra preda bellica ammonta a duecento mitragliatrici pesanti, diciotto cannoni da montagna, due cannoncini automatici, oltre seicento muli, duecentocinquanta veicoli carichi di materiali, dieci autocarri e due autoambulanze».


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