18 mila giorni di una vita disintegrata

Battiston in stato di grazia, ma il testo è debole
Giuseppe Battiston nei «18 mila giorni»
Giuseppe Battiston nei «18 mila giorni»
 La disoccupazione è sempre traumatica. Ma lo diventa ancor di più con l'età, quando si somma al peso di una vita in buona parte vissuta che perde improvvisamente i punti di riferimento. Il protagonista di «18 mila giorni-Il pitone», andato in scena in un Teatro Toniolo molto affollato - un Giuseppe Battiston in stato di grazia - non racconta solo la storia di come si finisce in esubero da lavoratore dipendente per mano di un indifferente capo del personale e di un giovane collega che gli si affianca proprio come il pitone alla preda, stando quieto sino a quando non è in grado di ucciderla: oltre al licenziamento deve fare poi i conti con lo sgretolarsi del suo universo familiare. Allora si rintana nel suo appartamento, solo, abbandonato dalla moglie e dal figlio, e trascorre le giornate sulle tracce di un passato ingombrante ma a cui è comunque affezionato.  Battiston si commuove alle prese con le vestigia di questo passato, pile di vestiti e oggetti ammassati, e si lancia in invettive mai rabbiose, sempre percorse da un sincero distillato di umanità. Gian Maria Testa spesso spunta con le sue canzoni da dietro a un velario: e l'indovinato disegno luci di Andrea Violato ne valorizza la presenza in scena. Le sonorità musicali di Testa mirano a creare un'atmosfera e dovrebbero fungere da contrappunto alla scrittura drammaturgica di Andrea Bajani, che all'impatto del palcoscenico, nonostante gli sforzi di Battison, si rivela debole: qua e là riesce a interessare, ma, alla luce dell'intrigante e fondato assunto sotteso alla pièce (il passaggio da un assetto legislativo che favoriva il rapporti di lavoro a tempo determinato ad un contesto sociale segnato irrimediabilmente dalla flessibilità) ci si poteva aspettare un po' di più. Comunque non mancano applausi e chiamate.  

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