Visita al carcere minorile dei ragazzi del Don Bosco

Quanti modi ci sono per essere giovani? E soprattutto, come si distinguono quelli bravi da quelli che hanno sbagliato? Ce l’hanno forse scritto in faccia? Nell’anno del Giubileo una delle sette opere...

Quanti modi ci sono per essere giovani? E soprattutto, come si distinguono quelli bravi da quelli che hanno sbagliato? Ce l’hanno forse scritto in faccia? Nell’anno del Giubileo una delle sette opere di misericordia invita ad andare a trovare i carcerati e così hanno fatto un gruppo di ragazzi del Don Bosco, che si sono recati al Penitenziario Minorile di Treviso. Sedici “diversamente giovani” – perché frequentare l’oratorio è considerato fuori moda – hanno incontrato altri quindici “diversamente giovani” – perché in una società malata di autoassoluzione, è inconsueto pagare per le proprie colpe. Doveva essere un semplice pomeriggio di condivisione, invece ha portato grandi scoperte, prima fra tutte quella che tra coetanei le categorie si abbattono con un soffio.

«Per animare l’incontro sono bastati qualche gioco in scatola e un po’ dell’allegria tipica degli oratori salesiani», racconta don Lorenzo Piola, promotore dell’iniziativa, «il sistema preventivo che ha reso don Bosco famoso in tutto il mondo, nacque proprio in seguito ad una visita alle carceri di Torino. Don Bosco, colpito da ciò che aveva visto, capì quanto sarebbe stata diversa la vita di quei ragazzi se solo avessero avuto un amico. Da lì la convinzione pedagogica che bisogna sempre intervenire prima».

Nel corso della visita erano presenti educatori, volontari e guardie, ma l’atmosfera era serena. Giulia, studentessa dell’ultimo anno di liceo classico, dice: «Mi sembrava impossibile che dei miei coetanei avessero già a che fare con il mondo della prigione. Poi, quando li ho visti giocare a pingpong esattamente come facciamo noi in oratorio, è scomparso ogni timore e durante l’intero pomeriggio non mi sono mai chiesta quale fosse il reato che avevano commesso. Eravamo due mondi che si incontrano e che scoprono di non essere così lontani».

Certo, se sono “dentro” qualcosa devono aver fatto, ma i visitatori sono giunti alla conclusione che è facile sbagliare quando si è soli e non si ha una famiglia alle spalle in grado di proteggere, correggere e aiutare a rialzarsi ad ogni caduta. «Non si agisce mai a caso e la nostra storia personale influenza le nostre scelte. Chissà cosa li ha spinti a finire lì», conclude Giulia.

E così, nella semplicità di un incontro, è germogliata un’idea di giustizia riparativa anziché punitiva, con i rappresentanti liberi di una società che ha subito un danno, che riallacciano insieme ai danneggiatori un rapporto spezzato. L’efficacia educativa di simili iniziative dipende sempre dall’atteggiamento con cui si pone chi viene in visita, ma i ragazzi di San Donà sembrano aver proposto lo stile giusto, tanto che i giovani detenuti hanno detto a don Marco Di Benedetto, loro cappellano: «Falli tornare questi».

Alessia Pavan

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