Venezia, c’è il vuoto oltre l’asporto I baristi: «Aperti per dare un segnale»

/ VENEZIA.
Si vedono come in trincea, a combattere per spirito di servizio più che di convenienza. Per una parvenza di normalità che manca ormai da mesi. Sono quei pochi bar, ristoranti e tavole calde aperte per gli operai che staccano dai cantieri per la pausa pranzo o per quei residenti a spasso per quelle poche compere consentite dalle restrizioni.
Le uniche forme umane tornate a popolare una città ripiombata nel deserto vissuto un anno fa. All’epoca si chiamava lockdown, ora si chiama zona rossa e le regole sono magari meno stringenti. Fatto sta che nel primo giorno di restrizioni pesanti, Venezia torna spettrale. E trovare qualche saracinesca sollevata o tavolino apparecchiato fa quasi strano, tante sono le vetrine oscurate e chiuse a lutto. Chi resiste, fuori dall’ingresso mostra quello che offre la casa.
In prevalenza sono menù da asporto, gli unici a tenere le porte del locale aperto sono quei ristoranti convenzionati come mense aziendali. È il caso, ad esempio, della Trattoria Storica a due passi da campo dei Gesuiti a Cannaregio. Con un rigido protocollo fatto di distanziamento, di prenotazioni con il nome dei clienti e di registrazione dei numeri telefonici, dallo scoppio della pandemia hanno stretto accordi con un centinaio di ditte edili e di trasporto per garantire un pasto caldo agli operai. «In questo modo riusciamo a garantirci una quarantina di coperti al giorno», spiegano Pierantonio Serantoni e Stefano Cimarosti, titolari del ristorante. Da 18 anni, la loro cucina sforna quotidianamente primi di pesce per lavoratori della zona. «Tenere aperto è anche un fatto di orgoglio personale, anche se inevitabilmente ci rimettiamo: prima della pandemia, ogni giorno a pranzo facevamo almeno un centinaio di coperti», aggiungono. È il destino comune di tante altre attività del centro storico, comprese le altre tre-quattro mense aziendali sparse in città. Per il resto, qualche pizza al taglio e poco altro. Fa effetto, ad esempio, vedere spenta l’inconfondibile insegna al neon della rosticceria Gislon in campo San Bortolomio. Con un cartello all’ingresso di scuse per il disagio, i titolari hanno deciso di riaprire in tempi migliori. In campo San Filippo e Giacomo, resistono solo due locali. «Non abbiamo mai chiuso finora», dice Giovanni Bonaccorsi, titolare de l’Aciugheta, «cosa stiamo a fare sul divano? Certo, di clientela ce n’è pochissima. È come andare a pesca. Ma è a Venezia in generale che c’è una grande difficoltà, e chi non ci vive non se ne può accorgere». Non c’è solo il crollo del turismo, la pandemia continua a colpire una città dove le attività per residenti battono in ritirata già da tempo. «Venezia chiusa è una miseria, noi stiamo qui come segnale di presenza», aggiunge Cristian Scarpa del Verde Bistro. Basta camminare verso Strada Nova per tastare con mano la differenza rispetto ad appena dieci giorni fa, con gli assembramenti del weekend. Il bar Tiziano, in salizada San Giovanni Grisostomo, offre cannelloni e risotto da asporto per sette euro. E se qua e là qualche capannello di persone con il bicchiere in mano si intravede, basta passeggiare lungo fondamenta dei Ormesini per rendersi conto che l’ennesima zona rossa si sta facendo sentire. In uno dei cuori della residenzialità a Venezia, nonché centro della movida cittadina, ieri mattina erano poco più di una manciata i locali aperti. Tra loro, l’osteria Zanon: «Stiamo qui, in trincea», spiegano i gemelli Davide e Nicola, “per dare un sollievo a chi lavora per strada. Per far vedere che Venezia nonostante tutto resta viva». —
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