Venezia abbraccia Marco Cè sabato sarà lutto cittadino

Si era presentato alla città come vescovo, padre e fratello, in una gelida mattina di gennaio; se n’è andato nel sole di maggio come il padre di tutti i veneziani, il pastore di anime buone e di anime che si erano perse, in prima fila tra gli ultimi, dalla parte dei più poveri e giù giù, nella scala del bisogno, fino gli affamati per i quali aveva creato la mensa di Betania.
La Venezia che il patriarca emerito Marco Cè aveva tanto amato, dove aveva guidato la Chiesa per ventitrè anni e dalla quale non aveva mai voluto andarsene, l’ha salutato con gli onori che la sua umiltà, tra le pieghe di un sorriso, avrebbe accettato: l’alzaremi dei gondolieri, la semplicità di una bara di legno, un pellegrinaggio ininterrotto nel Battistero della Basilica di San Marco fatto di passi brevi, teste chine, un mazzo di fiori, un fazzoletto furtivo sugli occhi; fatto di chi doveva esserci – il sindaco Giorgio Orsoni, il direttore generale Marco Agostini, gli assessori, le autorità -, dei sacerdoti, i parroci, i seminaristi; e fatto dello smarrimento di monsignor Valerio Comin, suo segretario particolare, confidente e sodale che gli è rimasto accanto fino a quando non l’ha visto rendere l’anima a Dio e ora si rigira le mani nelle mani senza trovare le parole.
Si stringono l’una all’altra le suore e lo proteggono a distanza i gondolieri con il presidente dei bancali Aldo Reato che ieri mattina avevano trasportato il feretro dall’ospedale civile fino al Molo di San Marco. Una sola gondola - quella del traghetto di Santa Sofia - e il tragitto lungo il Canal Grande che tante altre volte era stato di festa e di gioia, per papa Giovanni Paolo II, per papa Benedetto XVI, per l’allora patriarca Angelo Scola, per lo stesso patriarca Francesco Moraglia, e che ora è di congedo. Lo salutano i gondolieri agli stazi con un alzaremi che i turisti twittano e postano come matti e lo accolgono i veneziani che in Piazza San Marco devono a fare a gomitate per riuscire a sfiorare la bara con le punta delle dita e non perdere gli ultimi istanti su questa terra del loro Cè.
La «persona speciale», come l’ha ricordato Massimo Cacciari, che aveva saputo azzerare la distanza tra l’abito talare e i vestiti dei poveri riscuote in una mattina quello che aveva dato in anni di presenza discreta e generosa. Aveva distribuito bontà e intelligenza, potenziato la Caritas, amato i giovani creando nelle parrocchie i gruppi di Azione cattolica. Non era stato fermo un giorno e ogni giorno aveva seminato qualcosa, aiutato qualcuno, immaginato altro che portasse carità e fratellanza fino a quando le forze glielo avevano consentito. «Posso dire di avere amato Venezia come un padre e Venezia mi ha risposto» aveva scritto recentemente.
In cambio riceve la tenerezza dolente di un’intera città che lunedì sera, al rintocco delle campane di San Marco a lutto, aveva rivolto il pensiero a quella stanza d’ospedale dove il patriarca emerito era ricoverato dal 19 marzo scorso e dove piano piano, cosciente dei suoi 88 anni, dei suoi mali e della caducità della vita, se n’era andato.
Da ieri e fino a domani la salma sarà esposta nel Battistero della Basilica per l’omaggio dei fedeli. Sabato alle 10 i funerali con il segretario di Stato del Vaticano, monsignor Parolin. Sarà lutto cittadino: bandiera a mezza’asta e uffici chiusi durante le esequie. Riposerà nella cripta di San Marco davanti alla tomba del patriarca Giovanni Urbani.
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