Quarant'anni alla Cita sogno di «modernità» e quartiere di confine

«QUARTIERE MODERNO». La brochure degli anni ’70 che pubblicizzava la nascita della Cita
«QUARTIERE MODERNO». La brochure degli anni ’70 che pubblicizzava la nascita della Cita
 
MARGHERA.
Nella brochure dello studio Belli veniva presentato come un complesso residenziale e commerciale, dalla linea moderna, circondato da vaste aree verdi e ampi viali, che gli conferivano un'indiscussa eleganza. Il quartiere Cita, nato agli inizi degli anni '70 diventerà nei quarant'anni successivi una delle zone più controverse e difficili dell'entroterra veneziano. In questi giorni compie proprio 40 anni e sarà «festeggiato» con una mostra.  Il nome deriva da Alessandro Cita, proprietario alla fine dell'800 di una fabbrica di concimi naturali situata sul lato nord di Marghera. Il quartiere nasce invece nel 1970 con i primi edifici di via Longhena, realizzati dalla società di costruzioni Cita s.a.s. e venduti a privati. I palazzi successivi e le quattro torri alte 12 piani, furono invece acquistate dall'Inpdap per garantire un alloggio ai dipendenti dell'amministrazione pubblica.  In quegli anni alla Cita sono arrivate famiglie molto giovani, provenienti da ogni parte d'Italia e impiegate nei settori dell'istruzione, della salute, dell'amministrazione e della polizia. Era il quartiere in assoluto col coefficiente più alto di diplomati e laureati dell'intero comune. L'impianto urbanistico e alcuni errori fatali nella programmazione, determinarono le situazioni di degrado degli anni successivi.  L'architettura degli edifici e la totale assenza di luoghi di aggregazione, hanno soltanto acuito le difficoltà di convivenza tra famiglie di diversa cultura e tradizione. L'assenza di spazi e di momenti comuni ha alimentato il sospetto e ostacolato la solidarietà. In 12 ettari, barricate dietro 400.000 metri cubi di cemento, negli anni '80 vivevano quasi 5.000 persone. Don Alfredo, parroco del quartiere dal 1994, ha avvertito fortemente la mancanza di spazio pubblico: «Ho cercato di portare la Chiesa fuori dalla chiesa, di restituire il quartiere almeno ai bambini - racconta - ma ho avvertito la mancanza di una piazza. La piazza è quasi più importante della Chiesa, perché è un posto in cui vanno tutti». La convivenza era difficile e a volte si formavano delle vere e proprie guerre fra bande tra chi viveva al di qua delle «montagnole» e chi al di là, nei palazzoni di fronte. La parrocchia per molti ragazzi era l'unico punto di riferimento: i palloncini a San Martino, la sfilata di carnevale e la gara Citan Trophy d'estate sullo «stradon», erano momenti importanti. «Si è sempre pensato a costruire in verticale e mai in orizzontale - commenta Gino Cintolo, diacono della Parrocchia della Resurrezione, residente in via Palladio dal 1972 - è mancata l'attenzione per le relazioni, gli scambi e l'aggregazione del capitale sociale». Nel '74 una terribile alluvione distrusse il quartiere di Ca' Emiliani. Proprio al momento dell'emergenza si erano appena conclusi i lavori della torre 27, la quarta e ultima prevista dal progetto. Il Comune pensò di acquistare gli appartamenti e destinarli agli sfollati. Ma quell'insediamento fu causa di innumerevoli controversie: la società di costruzioni era contraria, e per vendetta nei confronti della parrocchia che appoggiava la scelta, sfrattò la comunità cristiana dalla sede che le aveva gratuitamente concesso; inoltre, gli inquilini della torre 27, «margherini» di origine e molto uniti tra loro, non legarono mai completamente con i vicini degli altri edifici e furono sempre considerati una realtà a parte.  Negli anni '80 anche Marghera, in particolare questa zona, è stata colpita dall'incubo della droga. Alcuni locali erano diventati luogo di spaccio, spesso avvenivano sparatorie. Ma per chi viveva nei palazzi il pericolo non era per nulla visibile. La struttura degli edifici, la disposizione degli spazi e il fatto che molti rincasassero solo la sera contribuivano a nascondere, a ovattare il disagio sociale.  Nonostante le difficoltà, anche oggi chi vive alla Cita ama il suo quartiere. Valeria Conte ha 26 anni, vive a Oslo, ma ha abitato alla Cita quasi tutta la vita: «Amavo in particolare l'ora del pranzo - dice - verso le 12 tutti iniziavano a cucinare e dalla terrazza potevi sentire il rumore di centinaia di stoviglie. A volte l'inconsistenza delle pareti faceva trapelare un po' troppe cose: se litigavi con tua madre finivi consolata dalla vicina. Figuriamoci cosa comportava portare a casa il fidanzato».  Oggi molti giovani se ne sono andati, e al loro posto sono arrivate famiglie dalla Cina, dall'India, dal Bangladesh. La storia si ripete, come è stato difficile comporre le tradizioni delle famiglie italiane sarà ancor più difficile mediare tra le diverse nazionalità.  

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