Parla Piergiorgio Baita: «Soldi dati a tutti, 100 milioni ogni anno»

Prima intervista dell’ex manager Mantovani dopo carcere e patteggiamento: «Il problema non è il Mose, ma la macchina di potere che sta sopra le imprese». La ricostruzione del ruolo del Consorzio Venezia Nuova nei lavori in Laguna
Interpress Vitucci Venezia, 03.04.2012.- "MOSE" Punta Sabbioni, allagato il bacino dopo aver chiuso le gallerie di ciascun alloggiamento con porte stagne.- Nella foto l'Ing.
Interpress Vitucci Venezia, 03.04.2012.- "MOSE" Punta Sabbioni, allagato il bacino dopo aver chiuso le gallerie di ciascun alloggiamento con porte stagne.- Nella foto l'Ing.

VENEZIA. «Il problema non è il Mose ma il Consorzio. Che in questi anni ha sperperato un sacco di soldi distribuendo tangenti e consulenze a tutti. E penalizzando le imprese». Dopo un lungo silenzio parla Piergiorgio Baita, ex presidente della Mantovani, primo socio del Consorzio Venezia Nuova. Arrestato lo scorso anno con l’accusa di false fatturazioni, il manager veneziano era uscito dall’inchiesta patteggiando un anno e dieci mesi. E fornendo agli inquirenti indicazioni preziose sul proseguimento delle indagini. Una storia già vista vent’anni fa, ai tempi di Tangentopoli. Con l’arresto e, all’epoca, il proscioglimento.

Ingegner Baita, guai finiti?
«Direi di sì. Di guai ne ho avuti già abbastanza».

Cosa hanno a che vedere con la sua vicenda gli arresti di questi giorni?
«Intanto dobbiamo dare a tutti la possibilità di difendersi. Ma io non c’entro con quello che hanno scoperto».

Che significa?
«Che l’ingegnere Mazzacurati, presidente del Consorzio, ha raccontato cose interessanti. E che è giunta a maturazione la campagna di monitoraggio avviata nel 2009».

Sarebbe?
«Per almeno due anni le microspie e le intercettazioni hanno fotografato la situazione all’interno del Consorzio, negli uffici di molti personaggi pubblici. Questo è il risultato».

Come legge questa vicenda?
«La spiego in una sorta di mutazione genetica avvenuta all’interno del Consorzio. Nel 1992 se ne vanno i soci storici fondatori, le grandi imprese come Girola, Lodigiani, Impregilo, l’Iri che aveva espresso il primo presidente Zanda».

Sono gli anni di Tangentopoli.
«Appunto. Il Consorzio sopravvive alla bufera di Tangentopoli rafforzando la sua struttura, assumendo una veste autonoma che finirà per entrare in conflitto con le imprese e con i soci. Con il suo nugolo di consiglieri e di cortigiani più che all’interesse dei soci pensa, da quel momento, alla sua sopravvivenza. E nel 2003 l’altro ribaltone».

Cioè?
«Le partecipazioni statali si ritirano e vendono Condotte, Mazzacurati diventa presidente. E la frattura con i soci si allarga: le imprese sono in difficoltà, hanno i cantieri aperti e le maestranze che lavorano. Non sopportano di avere sopra una struttura che guadagna il doppio e non serve a niente».

Attività forse utili al progetto.
«No, alimentavano soltanto una macchina di potere. Con un sacco di soldi a disposizione. Così si distribuivano soldi a tutti, mostre da sponsorizzare, libri, consulenze, viaggi, ospitalità. Cento milioni di euro l’anno da distribuire».

Da dove venivano quei soldi?
«Dal 12 per cento che spetta per legge al concessionario per gli oneri. Ma anche da voci specifiche di finanziamento, per studi e sperimentazioni, per il sistema informativo di campo Santo Stefano, inutile cattedrale nel deserto costata milioni di euro».

Anche le imprese partecipavano a questa attività?
«No, i soci non potevano aprire bocca, decideva tutto Mazzacurati. Bisognava obbedire alle regole, e io quelle regole le ho trovate già fatte. Le imprese non potevano neanche mettere piede al Magistrato alle Acque».

Potevate anche dire no.
«Quando sono entrato con la Mantovani la mia posizione era debole, dovevo tutelare i 70 milioni di investimento sborsati per rilevare la quota Impregilo».

Lei, uno dei protagonisti del Mose, ne rinnega forse la storia?
«No, perché questo non significa che il Mose non sia un’opera grandiosa, dove lavorano persone competenti e capaci. La cosa più sbagliata da fare adesso sarebbe abbandonarlo. I cantieri sono dei capolavori, il Consorzio una sovrastruttura inutile».

Dunque non serve più?
«Il Consorzio si può chiudere domattina, è ridicolo che abbia ancora centinaia di dipendenti a due anni dalla fine dei lavori. Meglio sarebbe interrogarsi sul dopo, sulla gestione».

Erano questi i contrasti tra lei e Mazzacurati?
«Certo, io non vedevo l’ora di finire i lavori, il Consorzio ha interesse a tirare in lungo».

Emergono anche episodi di corruzione che avrebbero accelerato i lavori, falsificato o modificato pareri e controlli.
«Questo rende impossibile adesso distinguere».

Orsoni è colpevole secondo Lei?
«I suoi comportamenti anche sull’Arsenale direbbero il contrario, non mi è parso in grande sintonia con il Consorzio. Forse Mazzacurati si aspettava da lui un comportamento più obbediente».

Lei non ha niente da rimproverarsi?
«Sì. Di essermi fidato e di avere avuto troppo riguardo umano nei confronti dell’ingegner Mazzacurati».

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