L’organo di Callido ai tarli «Aiutatemi a salvarlo»
Marino Salvadori lancia un accorato appello alle istituzioni per lo strumento del ’700. «Messo a Sant’Isepo si è salvato perfino dalle razzìe di Napoleone»

VENEZIA. Bellissimo, ma abbandonato e bisognoso di cure. È l’organo settecentesco che si trova nella chiesa di Sant’Isepo (San Giuseppe di Castello) di cui fino a oggi ancora non si conosceva il nome delle mani esperte che con passione e competenza avevano forgiato le canne e intarsiato il legno. Grazie alle ricerche del musicista veneziano Marino Salvadori, adesso sappiamo che l’artigiano che lo realizzò fu nientemeno che il grande Gaetano Callido. Allievo di Pietro Nacchini, Callido nel 1766 ricevette l’incarico di restaurare i tre organi della Basilica di San Marco e nella sua vita ne realizzò ben 430.
«Questo organo ha una storia incredibile» racconta Salvadori che ha un plico di documenti che raccontano nel dettaglio la vita dello strumento «Lancio un appello a fondazioni, musei, cittadini e associazioni, siamo di fronte a un’opera unica che rischia di consumarsi mangiata dai tarli del legno e del metallo». Scavando nel passato dell’organo, oggi situato nel soppalco della chiesa di S. Isepo e raggiungibile solo attraverso tre piani di scalini ripidissimi, si rimane basiti da quante ne abbia passate. Nel Settecento Callido era uno degli artigiani più in voga del momento, tanto che la Serenissima gli concesse l’esenzione delle tasse doganali per il trasporto dei suoi strumenti che rendono grande il nome di Venezia. Costruire un organo però non è semplice. Ci vuole una stanza grande e gli strumenti necessari per fondere il piombo con lo stagno e forgiare le canne.
Il legno poi non è un tronco qualsiasi. All’epoca si andava in Cadore alla ricerca di cipressi o di legni particolari: «Gli zatterieri li facevano scivolare sull’acqua» spiega Salvadori «e quando il tronco urtava una pietra, si ascoltava il suono e da quello si decideva se il legno poteva funzionare o meno». Callido ha quindi bisogno di uno spazio ampio e lo chiede alle suore di Santa Caterina. «La superiora glielo concede» prosegue il musicista «ma in cambio gli chiede di costruire l’organo più bello che mai avesse fatto.
Callido esegue e l’organo viene acquistato dalla chiesa di S. Caterina. Quando Napoleone iniziò a trafugare le opere a Venezia alle suore venne un’idea, quella di trasferire l’organo nella chiesa di S. Isepo, dove c’erano le monache Agostiniane, sapendo che non avrebbe mai preso nulla da una chiesa che portava il nome di sua moglie Giuseppina». L’organo viene smontato e ricostruito nel balcone superiore da cui domina su tutta la chiesa e sembra un tutt’uno con il soffitto affrescato da Pietro Ricchi. «Lo suonavo quando era piccolo» ricorda Salvadori, classe 1961. «Per restaurarlo ci vorrebbero 170 mila euro. Non si può lasciare che venga abbandonato, deve tornare a suonare». Impolverato e preda dei tarli, il capolavoro del grande Callido rischia di morire in solitudine.
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