L’assalto mortale al treno «In cella finì un innocente»

La storia di Francesco Sorce, accusato di essere il basista del colpo al vagone portavalori in cui morì Cristina Pavesi. In carcere si ammalò. Poi fu scagionato

CAMPOLONGO. «Non è vero che per l’assalto al treno in cui morì Cristina Pavesi a Vigonza il 13 dicembre del 1990 non ha pagato nessuno. Qualcuno ha pagato: mio marito Francesco Sorce accusato ingiustamente di essere stato il basista dell’assalto da parte della banda Maniero ai valori contenuti nel vagone postale del treno Venezia Milano, bloccato dalla mafia del Brenta a Barbariga di Vigonza. Se si farà un film su quei fatti, è importante venga messo in luce anche questa, che fu una vera e propria ingiustizia».

A raccontarlo sono Diana Checchin originaria di Venezia ma ora residente a Cuneo e la figlia Erika Sorce che da quello che considerano un terribile errore giudiziario ebbero la vita rovinata.

Cristina, studentessa universitaria, il 13 dicembre 1990 viaggiava sul treno 2629 Bologna Venezia per tornare a casa a Conegliano. Il treno viaggiava in quegli stessi minuti dalla direzione opposta ed era arrivato ad affiancare il vagone postale del treno preso di mira dalla banda nel momento esatto in cui Felice Maniero e i suoi uomini fecero esplodere un ordigno per aprire la serranda blindata e rapinare i valori custoditi nel vagone. Cristina romase uccisa e altri 13 passeggeri feriti.

«Mio marito Francesco Sorce», spiega Diana Checchin, «all’epoca era dipendente delle poste, incensurato, con la qualifica di “messaggero postale”. Viaggiava frequentemente sui treni postali. In quel treno al momento dell’assalto lui non era presente. Venne indicato come un possibile basista da un elemento della banda che lo suggerì agli inquirenti, che gli mostrarono diverse foto».

A individuare Sorce come il basista erano stato Ottorino Tasinato malato terminale di cancro (poi morto poco dopo) che raccontò ai magistrati come fosse stato individuato il basista in un impiegato delle poste di Torino di origine meridionale.

«Mio marito», spiega Diana Checchin, «era di origine siciliana ma non aveva partecipato in alcun modo all’ideazione del colpo da parte della banda Maniero».

Francesco Sorcevenne arrestato nel marzo del 1992 rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Fossombrone. «Gli venne imputata», spiega la vedova, «anche l’aggravante dell’associazione mafiosa e per questo subì il carcere duro».

Sorce rimase in carcere fino al dicembre del 1992 quando riscontri complessivi sul Dna inerenti le gesta della banda, lo scagionarono. L’inchiesta si riaprì nel 1995 ma anche in questo caso tutto venne archiviato. «Mio marito nel carcere di Fossombrone si ammalò», spiega Diana Checchin, «una cardiopatia gravissima da cui non si riprese mai più e che lo portò alla morte nel 2001 a soli 64 anni. Per reclamare la sua innocenza in carcere fece anche lo sciopero della fame».

La vedova e figlia Erika (che ora vive in Francia) spiegano poi un altro aspetto dell’ingiustizia subita: «Dopo 9 mesi di carcerazione cautelare non avevamo i soldi per intentare causa con gli avvocati contro lo Stato per l’ingiusta detenzione subita. Non potevamo nemmeno anticipare le parcelle ai legali. Mio marito doveva solo pensare a riprendere il lavoro alle Poste. Ora però che si farà un film, vogliamo che anche questa storia sia raccontata». —

Alessandro Abbadir

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