Il gioielliere Nardi: «Noi veneziani, diventati avidi e immobili, torniamo a essere ambasciatori del bello»

VENEZIA. Un secolo di storia, tre generazioni tra gli scrigni, cinque vetrine affacciate su Piazza San Marco e il tempo senza tempo di gioielli unici, fatti a mano, come piccole opere d’arte di pietre preziose, ricami d’oro, diamanti. Avrebbe dovuto essere un anno di festa per un secolo di gloria, e invece è stato un anno terribile, però senza cedimenti, perché, come dice Alberto Nardi, terza generazione di gioiellieri dopo il nonno Giulio e il padre Sergio, «è facile chiudere, ma poi è molto più difficile riaprire».
Al contrario di altre attività della Piazza, voi non avete spento le luci.
«Il negozio era rimasto aperto persino durante la seconda guerra mondiale. Ora abbiamo ridotto i giorni, quattro alla settimana, da mercoledì a sabato, e i dipendenti, da sei a due con turnazione della cassa integrazione».
Come sta vivendo questo periodo?
«Vivo vedendo quello che è emerso in maniera plastica e cioè che l’ aver spogliato la città delle sue funzioni, di occasioni di lavoro che esulino dal turismo, di significati, ha svuotato Venezia. In Piazza, poi, è ancora peggio».

In che senso?
«Piazza San Marco è una città nella città, un luogo non luogo. Nel tempo, siamo riusciti a trasformare la piazza dei veneziani, la loro agorà, dove erano soliti vedersi e incontrarsi per il liston, in un luogo in cui i residenti non vanno, dal quale sono stati espulsi. Il risultato è che la città è priva di contenuti e la piazza priva di veneziani».
Anche in Piazza, ormai da tempo, sono comparsi i negozi di souvenir.
«La Piazza ha il problema di un’offerta commerciale ondivaga. Se avessimo fatto i distretti, non avremmo questa commistione che nuoce a tutti, tanto al lusso quanto ai vetri a un euro».

Come si può invertire questa tendenza?
«Bisogna che nell’immaginario Venezia ritorni ad essere il luogo ideale dello shopping legato al leisure, al tempo libero. Non è possibile che su cento fatture tax free solo nove siano emesse a Venezia contro le trenta e oltre di Milano. Venezia ormai da tempo prende solo le briciole dello shopping di lusso».
Perché non si riesce a fare quello che suggerisce?
«Perché il turismo di massa è la moneta cattiva che ha cacciato quella buona».
Com’è possibile che ci siano botteghe di souvenir in grado di pagare affitti da 10-20 mila euro al mese?
«Questo non lo so. Però ho il timore, come tanti, che Venezia sia diventata appetibile dal punto di vista del riciclaggio del denaro».
La responsabilità?
«La responsabilità è di noi stessi. I veneziani, nella maggior parte, vivono di rendita, di immobili, quindi stanno fermi. La città del commercio, cioè del movimento, dell’intraprendenza, è diventata immobile. Siamo diventati avidi e immobili. Ogni rubinetto dal quale arriva denaro facile subito lo apriamo. In questo modo abbiamo svuotato la città, che è diventata un enorme palcoscenico morto sul quale si muove questa commedia dell’arte che è ancora più amara se la confrontiamo con la città dei nostri antenati».
Come vede il futuro?
«Sinceramente, ho il terrore pazzesco che si ritorni a fare quello che facevamo prima. E’ evidente che la città prima del covid era ed è un modello fallimentare».
Proposte?
«Dobbiamo pensare adesso alla città e alla Piazza del dopo pandemia. La prima cosa è avere a tutti costi nuovi residenti. L’aspetto della stagionalità, poi, non è più tollerabile. Venezia può e deve lavorare per dodici mesi all’anno. Facciamo di novembre un nuovo settembre. E poi dobbiamo eliminare il paradosso che pesa di più».
Quale?
«Il paradosso che, nella città del bello, si comunica il brutto. Ritorniamo ambasciatori dell’eleganza». —
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