Il boss: «Ti spacco la testa» Le minacce di Bolognino

Le motivazioni della sentenza di condanna della banda dei calabresi Avvertimenti, pressioni e violenze agli imprenditori per costringerli a pagare 
SALMASO.CONFERENZA STAMPA GS GALLIERA
SALMASO.CONFERENZA STAMPA GS GALLIERA



«Lui....Michele Bolognino...quel giorno dell’aggressione ha minacciato anche mio figlio di 2 anni...che non ci metteva niente a svitare la testa a me e mio figlio», racconta la moglie di un imprenditore. «Tu devi fare quello che dico io», dice Sergio Bolognino al marito, «se non fai quello che ti dico io ti spacco le gambe, ti spacco la testa tu e quella puttana di tua moglie dovete lavorare per me e stare zitti».

È solo uno dei numerosi racconti di minacce di imprenditori “spolpati” delle proprie attività – in questo caso un’azienda di scaffalature metalliche con brevetti internazionali – che si ritrovano nelle motivazioni della sentenza con la quale il giudice per le udienze preliminari Luca Marini ha confermato l’esistenza di una “filiale veneta” della ’ndrangheta calabrese facente capo alla ’ndrina Nicolino Grande Aracri, che già si era radicata in Emilia Romagna e che grazie all’operato dei fratelli Michele, Sergio e Francesco Bolognino ha allargato i propri affari in Veneto: casa a Tezze sul Brenta e come vittime imprenditori soprattutto della provincia di Venezia e Padova. Titolari di aziende minacciati, estorti, che hanno dovuto cedere le ditte oppure si sono poi messi al servizio del clan diventando a loro volta fabbriche di false fatture per riciclare danaro e frodare il fisco e guadagnarci in proprio. 35 in tutto gli imputati che hanno scelto il rito abbreviato, nel processo istruito dalla pm della Distrettuale antimafia Paola Tonini, con condanne per oltre 116 anni e confische per 15 milioni di euro. Altri imputati dell’inchiesta “Camaleonte” sono a dibattimento al Tribunale di Padova, sei al tribunale di Venezia.

«Attività peculiare illecita propria contestata alla famiglia Bolognino», scrive il gip Marini, «ha riguardato l’esercizio dell’usura e dell’estorsione per acquisire il controllo di compagini societarie attive nel contesto veneto, allo scopo di utilizzarle per l’ulteriore espansione del sodalizio criminoso. Attività nelle quali finivano poi per essere costretti ad associarsi anche gli imprenditori veneti, inizialmente vittime». L’approccio è sempre lo stesso: «Si offre sostegno economico all’azienda individuata: dopo una prima fase di acquisizione anche amichevole, anche attraverso la consulenza commecialistica dell’esperto del gruppo, Donato Clausi, la presenza della famiglia in azienda veniva spinta con richieste sempre più pressanti, con modalità talvolta violente, sempre minacciose, fino alla completa estromissione o asservimento degli originari imprenditori alla volontà del gruppo malavitoso».

Tra gli imprenditori veneti che hanno subito le estorsioni da parte del sodalizio criminale calabrese «fino ad esserne stati assoggettati nelle attività criminose al servizio dell’associazione - scrive il giudice - particolare importanza hanno assunto le figure di Leonardo Lovo, Adriano Biasion e F.S.». Si tratta di imprenditori padovani e veneziani che «si sono resi responsabili principalmente di false fatturazioni e riciclaggio, nel rispetto alle esigenze dell’organizzazione criminale calabrese: mentre F.S. peraltro operava nello scopo personale di ottenere, da tale partecipazione collusiva disponibilità di contante per sé, Lovo e Biasion si prestavano alle operazioni in ragione dei loto pregressi debiti nei confronti della cosca: Lovo avendo ricevuto 300 mila euro da parte di Giuseppe Di Rosa da restituire con tassi usurai del 20% e Biasion avendo maturato nei confronti dei fratelli Bolognino, Sergio e Michele, dal 2008 un debito per opere edilizie eseguite in un suo complesso a uso residenziale. Tutti e tre hanno poi collaborato alle indagini (F. S. ha patteggiato). —

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