Estorsioni, violenze, droga e usura. I Casalesi erano padroni del litorale

VENEZIA. I Casalesi sono arrivati sul litorale veneziano come piccoli imprenditori per partecipare alla costruzione di villaggi turistici. Dopo una ventina di anni sono diventati i padroni del Veneto Orientale. Si sono infiltrati in aziende, banche e nella politica.
Controllano il territorio con estorsioni, rapine, minacce, attentati e la richiesta del pizzo agli altri criminali ma anche fornendo manodopera irregolare e a basso costo agli imprenditori “puliti”. E qui hanno trovato terreno fertile.
Un quadro nuovo del Veneto che produce, emerso dall’inchiesta della Dda di Venezia che ieri all’alba ha portato in carcere cinquanta persone con l’accusa di appartenere ad un’associazione criminale di stampo mafioso.
In manette, per voto di scambio anche il sindaco di centrodestra di Eraclea Mirco Mestre, indagato, per lo stesso reato, anche un suo predecessore di Forza Italia, Graziano Teso. Sequestrati beni per 10 milioni di euro. La gran parte degli arrestati sono veneti e gli altri, di origine casertana, appartengono alla famiglia camorrista degli Schiavone.
Camorristi che agivano qui «come se fossero nel loro territorio in Campania», ha detto il Procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho, presente a Venezia durante la conferenza stampa relativa all’operazione con il Procuratore capo Bruno Cherchi, i vertici della Guardia di Finanza di Trieste, il questore di Venezia Danilo Gagliardi e il capo della Squadra Mobile lagunare Stefano Signoretti.
Le indagini sono iniziate nel lontano 1999. Un primo filone seguito dalla Mobile veneziana si è intrecciato, poi, con uno del Gico della Guardia di Finanza che aveva raccolto le testimonianze di alcuni pentiti di camorra. È il secondo colpo alla mafia infiltrata in Veneto nel giro di una settimana. Sette giorni fa il Ros dei carabinieri, aveva colpito la ‘Ndrangheta, arrestando 7 persone legate alla famiglia Multari.
I tentacoli dei Casalesi
L’organizzazione risulta formata già alla fine degli anni ’90. Al vertice ci sono Luciano Donadio e Raffaele Buonanno, quest’ultimo imparentato tramite la moglie con esponenti di vertice dei clan Bianco e Bidognetti.
Buonanno, attraverso la moglie è imparentato con Francesco Bidognetti detto “cicciotto e mezzanotte”. Tutti fanno capo alla famiglia Schiavone. Il clan Donadio si era insediato nel Veneto orientale rilevando il controllo del territorio dagli ultimi esponenti della “mafia del Brenta”, con i quali sono stati comprovati i contatti.
Tra gli “organizzatori” del clan c’è anche Antonio Buonanno, 57 anni di Casal di Principe. Questi potevano contare sull’apporto di altri casalesi come Antonio Puoti, Antonio Pacifico, Antonio Basile, Giuseppe Puoti, Nunzio Confuorto, Girolamo Arena, Raffaele Celardo e Christian Sgnaolin.
Edilizia e ristorazione
Dall’indagine risulta come, con violenza e minacce, il clan agiva per prendere il controllo delle attività economiche, in particolare nell’edilizia e nella ristorazione, oltre ad imporre ai gruppi criminali locali un “pizzo” per il narcotraffico e lo sfruttamento della prostituzione.
I Casalesi inizialmente operava nel settore dell’edilizia, dedicandosi all’usura e alle estorsioni, specializzandosi poi nel settore delle riscossioni crediti per conto di imprenditori locali. E per finire forniva manodopera a basso costo, in “nero”, al mondo imprenditoriale pulito che si rivolgeva a loro. Per affermare l’egemonia sul territorio il gruppo ha fatto largo uso di armi da guerra, utilizzate per compiere attentati intimidatori.
Nel corso dell’indagine sono state sventate anche alcune rapine. In una di queste, in provincia di Treviso, alcuni membri del gruppo sono stati arrestati. Nel tempo l’organizzazione si era poi finanziata anche con la produzione di false fatture per milioni di euro grazie ad una fitta rete di aziende intestate a prestanome, oltre a compiere truffe all’Inps attraverso false assunzioni allo scopo di lucrare indebitamente l’indennità di disoccupazione per 700mila euro.
L’amico banchiere
Fondamentale il ruolo del direttore di banca complice. In carcere è finito anche Denis Poles, direttore di un istituto di credito di Jesolo, complice come il suo predecessore (indagato a piede libero) in quanto consentiva al gruppo di operare su conti societari senza averne il titolo, concordando con loro l’interposizione di prestanome e omettendo di segnalare operazioni sospette. Aiutava a riciclare. —
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