Donadio “giudice”, tra l’omertà dei più

La sentenza sui sodali del clan: «In molti si rivolgevano a lui per recuperare i crediti. Il sodalizio mafioso come “anti Stato”»

/ eraclea

La camorra dei Casalesi, a Eraclea, c’è sin dal 1992. Una vera e propria associazione mafiosa in Veneto orientale in costante contatto con “casa” e la famiglia Schiavone, alla quale pagava ogni mese una “tassa” su guadagni leciti e illeciti. Un gruppo che se in una prima fase si è radicato tra Eraclea, San Donà di Piave, Caorle con atti intimidatori, attentati, imponendo agli imprenditori locali le proprie squadre di operai e tassi usurai, fino «a una vera e propria spoliazione del cantiere (....) in una spirale che poneva l’imprenditore in stato di assoluta soggezione»; col passare del tempo si è così innervata nel tessuto sociale sandonatese, da farsi “giudice”, arbitro per dirimere le questioni tra privati. Una legge a parte in una società spesso omertosa.

Le 765 pagine della sentenza della giudice Michela Rizzi - a motivare i 130 anni di condanna per i 24 imputati (a vario titolo) che hanno scelto il rito abbreviato - raccontano di un pezzo di Veneto della porta accanto che in parte ha subìto l’azione del gruppo e in parte l’ha sostenuta. Per paura o tornaconto, come nello scambio - voti in cambio di vantaggi edili - tra il clan e l’ex sindaco Graziano Teso. Una sentenza che accoglie in pieno il quadro accusatorio prospettato dai pm Federica Baccaglini e Roberto Terzo, pur ricordando che si tratta di un primo grado di giudizio, appellabile, e che coloro che sono indicati «al vertice della piramide, Luciano Donadio, Raffaele e Antonio Buonanno», sono tutt’ora sotto giudizio davanti al Tribunale.

Così la giudice Rizzi ricostruisce il prosperare del clan dei casalesi di Eraclea, tra cantieri espropriati, attentati, estorsioni, borsoni d’armi e di danaro, usura, frodi al fisco e alle banche, riciclaggio di soldi falsi. Ed è sugli “assenti” ancora a giudizio, che molto si sofferma, parlando della «penetrazione nel tessuto sociale, soprattutto imprenditoriale» del clan: attraverso lo scambio di false fatture e «l’intervento sempre più frequente nel settore della riscossione coattiva dei crediti». La legge del clan.

«La diffusione della capacità di intimidazione del sodalizio», si legge, «fa sì che molte persone si rivolgano a Donadio e ai suoi sodali per ottenere appoggio in contrasti di varia natura, spesso, per recuperare a forza somme di danaro da debitori che non pagano». Anziché una lunga azione legale per una riscossione, ci si rivolge al gruppo di Donadio, che per sé tiene il 30-50%. Secondo una procedura: «Il debitore veniva accompagnato al cospetto di Donadio in una sorta di “udienza” e che di regola si concludeva con l’impegno del debitore a versare quanto richiesto. Talvolta quest’ultimo, impaurito, addirittura arrivava a ringraziare Donadio per non aver subito violenze. Se poi l’impegno a pagare non veniva mantenuto, progressivamente cresceva la pressione sul debitore (....) Donadio ha assunto il ruolo di regolatore dei conflitti(....) Il sodalizio era in grado di intimorire e vi era una situazione di assoggettamento da parte della popolazione che preferiva non rischiare di inimicarsi Donadio e il suo gruppo, temendo ritorsioni, “perché poi loro sono qua” (....) È sufficiente la fama criminale dell’organizzazione ad incutere il timore tra gli interlocutori, consapevoli della sua capacità di attuare ritorsioni».

«Il sodalizio mafioso come una sorta di “antistato”», conclude Rizzi, «anche nell’ordine pubblico economico, data la propensione dell’associazione mafiosa ad acquisire il controllo dell’economia del luogo». Qui, nel Veneto orientale.

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