Demansionata va in depressione: risarcita

La Cassazione riconosce il danno biologico a una ex coordinatrice di settore delle Poste 
Da coordinatrice di un intero settore delle Poste a una collocazione in cui trascorreva lunghi periodi di inattività. Un demansionamento che ha causato a una donna, oggi 59enne, «uno stato ansioso-depressivo collegato a una situazione lavorativa avversa». Per questo la dipendente deve essere risarcita da Poste anche del danno biologico provocato dal cambio (al ribasso) di mansione. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione rinviando la causa alla Corte d’Appello di Venezia che dovrà riesaminare la domanda della lavoratrice in merito al danno biologico.


Nel 2011 la Corte lagunare si era già espressa sul caso, confermando la sentenza di primo grado con cui il tribunale di Venezia, accogliendo parzialmente il ricorso della lavoratrice, aveva accertato l’avvenuto demansionamento da gennaio 2002 a maggio 2006 (escluso il periodo ottobre 2002-marzo 2003) e condannato Poste al risarcimento del danno da dequalificazione professionale pari a una mensilità per ogni mese di demansionamento. I giudici dell’appello avevano chiarito, come riportato nella sentenza della Cassazione, che «La lavoratrice aveva subìto una riduzione dei compiti che le erano stati in precedenza assegnati sia sul piano qualitativo per il venire meno delle funzioni di coordinamento del settore della Sezione assegni del Cuas – Centro unificato automazione servizi centrali – di Mestre, con le connesse responsabilità, sia sul piano quantitativo, posto che le nuove funzioni alle quali era stata adibita avevano fatto sì che trascorresse lunghi periodi di inattività». Quanto però al danno biologico, la Corte d’Appello aveva osservato come la lavoratrice avesse parlato nel ricorso solo genericamente di patologie dipendenti dalla dequalificazione, con un riferimento sommario a cure psichiatriche e assunzione di farmaci. E che quindi non ci fosse la prova che avesse effettivamente diritto al risarcimento.


Contro il pronunciamento di secondo grado, Poste ha presentato un ricorso contro cui ha la lavoratrice ha resistito con un controricorso. Mentre è stato respinto quanto sostenuto dalla società, i giudici della Suprema Corte hanno ritenuto fondato il ricorso della lavoratrice valutando che in appello non sia stata adeguatamente vagliata la documentazione relativa alle patologie dipendenti dalla dequalificazione della dipendente che viveva in «un quadro di emarginazione e isolamento aziendale», né i documenti sanitari prodotti, né le dichiarazioni dei testimoni che avevano riferito «della difficile condizione personale e professionale della donna nell’ambiente di lavoro al Cuas».


Rubina Bon


Riproduzione riservata © La Nuova Venezia