Condannato all’ergastolo e assolto, imputato risarcito con 200 mila euro

VENEZIA. Affonda le radici nel lontano passato una sentenza del Tribunale di Salerno che, nel condannare la Presidenza del Consiglio dei ministri a risarcire con 200 mila euro un uomo ingiustamente condannato in primo grado all’ergastolo per l’omicidio nel 1992 di un poliziotto e della moglie a Lamezia - poi assolto in via definitiva, dopo una lunga battaglia legale- lo fa dichiarando «la responsabilità per colpa grave del magistrato pubblico ministero Adelchi d’Ippolito, nell’esercizio delle sue funzioni».
Allora pubblico ministero della Procura Distrettuale Antimafia calabra, D’Ippolito è oggi procuratore vicario a Venezia, dopo anni al ministero di Giustizia. Cosa è accaduto?
L'ACCUSA
D’Ippolito si era occupato delle indagini sull’omicidio dell’ispettore di polizia Salvatore Aversa e della moglie, avvenuto nel gennaio del 1992 a Lamezia Terme. Le dichiarazioni di una donna, portarono gli investigatori a incolpare dell’assassinio Giuseppe Rizzardi, condannato in primo grado all’ergastolo, poi assolto in appello e Cassazione: definitivamente innocente dal 2004, tanto da essersi rivolto all’avvocato Armando Vento per far causa allo Stato, ottenendo nei giorni scorsi 200 mila euro di risarcimento dal Tribunale di Salerno.
Secondo i giudici, infatti, a condizionare in parte quel processo di primo grado furono alcune scelte fatte dall’allora pm nella gestione del fascicolo d’inchiesta, che non avrebbero permesso alla difesa di conoscere tutti gli atti a disposizione della Procura, anche quelli a favore dell’imputato. Come il fatto che la stessa donna che lo aveva identificato (negli anni a seguire, condannata per calunnia, tanto che altri sono stati poi arrestati per quell’omicidio) avesse detto che Rizzardi indossava una tuta, non riconoscendo però quella sequestrata in casa dell’uomo. Una nota che non era agli atti, ma era confluita in un fascicolo contro ignoti. Scomparse anche alcune bobine con le intercettazioni.
«Il pm può certamente ritenere superfluo introdurre nel bagaglio conoscitivo della Difesa atti di indagini di procedimenti separati a carico di ignoti», scrivono i giudici, «ma appare “non spiegabile” che sia preclusa alla Difesa la conoscenza di atti di indagine direttamente collegabili al delitto Aversa, che abbiano interessato direttamente la supertestimone».
Vero - aggiungono i giudici - che questa “inescusabile negligenza” portò già allora all’annullamento dell’udienza preliminare (poi rifatta) e che comunque si arrivò a una condanna in primo grado in d’Assise. Ma ritiene il Tribunale, «che quelle violazioni siano in relazione con l’innegabile ritardo che l’accertamento della verità processuale ha subito, con la conseguente dilatazione dei tempi e il prolungamento dell’esposizione mediatica e della sofferenza morale e soggettiva del ricorrente».
LA DIFESA
Una sentenza contro la quale il procuratore vicario potrà ricorrere in Appello. «Ho appreso dalla stampa (non essendo io stato parte in questo giudizio) del fatto che vi è stata una condanna in primo grado della Presidenza del Consiglio a risarcire i danni in relazione ad un processo di cui seguii le indagini circa 30 anni fa», commenta d’Ippolito.
«Vedremo se troverà conferma nei successivi gradi di giudizio. Posso solo dire che all’epoca i presunti responsabili furono arrestati e condannati dopo dibattimento in cui la Corte d’Assise aveva ritenuto attendibile la deposizione di una ragazza che proprio in relazione alla testimonianza resa su quel delitto, fu insignita di una particolare onorificenza civile dal capo dello Stato. Si accertò solo in seguito che aveva mentito e venne a sua volta condannata per calunnia. Non ebbi neppure l’occasione di seguire il processo fino in fondo: l’accusa in dibattimento, con la richiesta di condanna all’ergastolo, fu alla fine sostenuta dal procuratore capo essendomi io nel frattempo trasferito a Roma».
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