Cera conquista le due stelle «Dedicate ai miei fratelli»

CAMPAGNA LUPIA. Due stelle nate più di quaranta anni fa. 46, per la precisione, quando Rino Cera aprì la sua osteria a due passi dalla Romea, a Lughetto di Campagna Lupia. Allora apriva i battenti alle 5 del mattino vendendo e sfamando frotte di operai con una lunga teoria di tradizionali cicchetti veneziani. Una coda di clienti incessante fino alle 7 del mattino. Fu lì che Lionello mosse i primi passi di cuoco e imparò i rudimenti del mestiere. E la passione ce l’aveva anche allora, tanto che crescendo, nell’età e nel mestiere, convinse il padre ad arricchire l’offerta del locale anche con un minimo di ristorazione oltre al servizio al banco. «Per la verità - dice sorridendo Cera, e gli occhi gli brillano – gli ho messo davanti quasi un aut aut: dai facciamo anche un po’ di ristorante, altrimenti me ne vado. Per fortuna mio padre era una persona intelligente e capì subito. Pian piano, poi, sono riuscito a trasformare la vecchia osteria nel ristorante che si vede oggi».
E proprio in questi giorni la Guida Michelin le ha assegnato la seconda stella.
«Sì, l’avevano annunciato lo scorso anno come promessa, ed era già una gran bella soddisfazione. Vederla proprio è stata una gioia incredibile, anche perché gli ispettori della Michelin sono molto severi e qui facciamo soltanto cucina di pesce. Comunque, dopo la prima stella conquistata del 2000, questa seconda premia tutti i nostri sforzi e la bella brigata di giovani che abbiamo in cucina. E. non dimentichiamo che sono stato fermo per tre anni a causa di una malattia, ma qui i miei fratelli (Daniele e Lorena, in cucina) hanno tenuto botta anche senza di me. Questa stella è anche merito loro».
E da quel poco che abbiamo assaggiato come l’antipasto Viola Gambero o il Sanpietro cotto sulla pelle, la piccola pasticceria e la zuppa fredda di agrumi (bravissima la giovane Sara, scuola francese, pasticcera vicentina) la seconda stella ci sta tutta, visto il raro equilibrio dei piatti e l’ottimo gusto nell’accostamento dei sapori e il gioco delle consistenze. Ma non è solo questo. Perché nelle sale, sobrie nella loro eleganza (orchestrate con bella maniera dalla signora Simonetta), si respira cultura. Cultura del fare soprattutto, ma non guasta nemmeno quella del vedere come i colori riposanti, le tovaglie candide, le sculture le grandi foto alle pareti fin dall’ingresso nelle quali dominano in primo piano le mani che fanno cucina. Chiediamo a Lionello di queste mani. «Perché il nostro lavoro è un lavoro di mani – risponde - È con le dita che facciamo i piatti, sono il nostro primo e più importante strumento. Le dita che si muovono, che impastano, che impiattano sono il segno e il mezzo primario della creatività nostra. Dello stare mai fermi, perché io non sto mai fermo, devo sempre guardare avanti, progettare, fare sempre cose nuove, provare piatti nuovi».
Uno stimolo continuo, quindi. Lo trasmette anche ai suoi ragazzi?
«Non si può stare fermi sulle cose già fatte, bisogna guardare avanti. Io voglio sempre migliorare. Questa tensione cerco di farla capire anche ai giovani che ho in cucina, il mio compito, oltre a quello di insegnare la tecnica, è anche quello di farli crescere, di stimolarli. Ma devono capire che solo con l’umiltà si impara appieno questo mestiere duro, ma che dà soddisfazioni».
Nei suoi piatti c’è una forte presenza della Sicilia, per la precisione della Val di Noto (mandorle, olio evo, agrumi e i pistacchi di Bronte). Una passione?
«Una passionaccia da quando ho conosciuto Corrado Assenza (uno dei grandi pasticceri d’Italia, Caffè Sicilia a Noto, n.d.r.) che mi ha fatto conoscere produttori di materie prime eccellenti. Per esempio l’olio d’olive extravergine che uso è un blend che mi faccio fare apposta nella zona fra Modica e Noto. Il fatto è che da anni vado lì in vacanza e quando torno ho il serbatoio pieno per tirare avanti un anno intero. La Sicilia è favolosa, ti ricrea».
Sta tradendo la cucina veneziana?
«Ma no. Si parte sempre da lì, in fin dei conti. I pesci che usiamo in massima parte sono quelli dell’Adriatico, e poi facciamo anche la frittura tipica nostrana. È che per certi piatti, quelli più creativi, usiamo sapori altri, anche i siciliani. E sono un arricchimento».
Ma lei i nostri piatti li mangia ancora?
«Certo che sì. Quando ne ho voglia chiedo a mia madre, oppure faccio un salto al Portico di Cona. Le svelo un piccolo segreto: non mi piace lavorare il fegato, così sono costretto ad andare a casa di altri per mangiarlo».
A quando la terza stella?
«Mai, credo. È già un bell’impegno conservare queste due. Ad ogni modo questo è stato un anno fortunato. Abbiamo anche preso la seconda medaglia dal Touring, l’Espresso ci ha dato un bel 17 e il Gambero Rosso un 87. Continueremo a guardare avanti. Ho un solo rammarico: che non ci sia sinergia con gli altri colleghi della Riviera del Brenta. Peccato, si potrebbe crescere insieme».
Francesco Lazzarini
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