Casalesi di Eraclea, la storia dell'unico taglieggiato che si è costituito parte civile

VENEZIA. Pioggia di eccezioni preliminari da parte dei difensori dei 45 imputati, nella seconda udienza del maxi-processo al cosiddetto Clan Donadio che per un ventennio avrebbe fatto il bello e il cattivo tempo a Eraclea e sul Veneto Orientale, con Luciano Donadio e i suoi sodali accusati dalla Procura di Venezia di aver messo in piedi una macchina camorristica con i piedi ben saldi sul litorale veneziano.
Tutte le eccezioni sono state respinte dal collegio presieduto dal giudice Stefano Manduzio: da quelle sul diritto costituzionale alla difesa (che sarebbe violato dal fatto che gli imputati sono collegati in videoconferenza da mezza Italia, ma per il collegio è del tutto previsto dalla norma e giustificato anche dalle norme anti-Covid) alla costituzione delle parti civili.
Contrariamente alle richieste di alcune difese, queste ultime sono state, invece, tutte ammesse dal Tribunale: ministero dell’Interno, Regione Veneto, Comune di Eraclea, Città metropolitana, associazione Libera contro tutte le mafie, l’imprenditore Ludovico Pasqual (l’unico tra oltre trenta imprenditori minacciati e ridotti al fallimento, a costituirsi parte civile) e anche il finanziere Fabio Gaiatto, che per altro sta scontando una condanna a oltre 15 anni di carcere per una maxi truffa da 26 milioni di euro e la cui vicenda personale si intreccia (qui come parte offesa) con quella di uno degli imputati del maxi-processo, Samuele Faè.
Prossima udienza, il 22 giugno.
La storia di Ludovico Pasqual
I guai per Ludovico Pasqual, piccolo artigiano edile, iniziano quando accetta la proposta di Antonio Pacifico, sodale di Luciano Donadio. Pasqual deve eseguire dei lavori entro una decina di giorni e Pacifico gli offre manodopera in nero da pagare in contanti. Un accordo di somministrazione di manodopera: gli operai vengono gestiti dal Pacifico e pagati dal Pasqual che però non riesce a saldare subito le maestranze.
Ricorrerà a Pacifico almeno un'altra volta e poi anche Francesco Verde, pure lui indicato dagli inquirenti come parte dell’associazione mafiosa, offrirà la sua squadra di operai per un altro lavoro.
All’offerta di manodopera si aggiunge la fornitura di materiali e poi il prestito di denaro nel momento in cui Pasqual non è in grado di onorare i debiti. L’artigiano si troverà nelle condizioni di dover accettare la manodopera offerta dai due anche quando non è per nulla soddisfatto della qualità del lavoro svolto. Il tutto in evidente accordo, da quanto si legge nell’ordinanza di custodia cautelare, con lo stesso Donadio e con l’architetto Paolo Milan di Jesolo.
L’intermediazione di manodopera è uno dei tanti business intrapresi dall’organizzazione che fa capo a Donadio. In alcuni casi si tratta di un balletto di operai che passano da una società all’altra in seguito a fallimenti pilotati e bancarotte.
«Bisogna licenziare tutti gli operai della Grazioso e mandarli alla Puolifin» raccomanda Christian Sgnaolin al fidato commercialista Giuseppe Puoti. L’obiettivo è quello di riscuotere i benefici previdenziali per i lavoratori in mobilità.
I conti sono presto fatti e li snocciola Giuseppe Puglisi a Donadio e a Sgnaolin. «In mobilità costano dai 6 ai 700 euro al mese… con la cassa edile e tutto…E, invece…normale costano dai 1100 ai 1300».
Gli operai vengono così fatti ruotare da una società all’altra, in perenne mobilità, «cinque giorni li teniamo assunti con Enjoy. Cinque giorni e basta. E rimangono assunti con la Poulifin, un mese e due e basta e li riassumiamo un’altra volta con la Enjoy un'altra volta in mobilità. Dimmi se non una cosa fatta con i controcoglioni» esulta Donadio.
Il protagonismo delle mafie nella fornitura di manodopera non è una novità in Veneto: lo desumiamo anche dall’inchiesta Porto Franco, della procura di Reggio Calabria, sulle cooperative che facevano capo alla cosca Pesce attive anche a Verona. O nell’attività della famiglia Giardino sempre nell’area scaligera o, riandando indietro negli anni, emerge da un’altra importante inchiesta giudiziaria intrapresa nell’alto trevigiano: Angelo Pittarresi, legato a Cosa Nostra, avviò una grossa attività di intermediazione di manodopera fiutando la richiesta da parte delle imprese di manodopera a intermittenza.
Una testimonianza inquietante l’ha offerta cinque anni fa l'allora procuratore capo di Verona, Guido Papalia: «A Verona esiste un forte bisogno di manodopera che viene soddisfatto da organizzazioni criminali. Esse creano imprese e cooperative che lavorano in subappalto o forniscono lavoro nero».
Ovviamente non sono solo le mafie a trattare la manodopera come merce senza diritti. Non è forse un caso che Giorgio Minella, imprenditore edile di Galzignano, in provincia di Padova, finito coinvolto nell’inchiesta accusato di estorsione e rapina, impiegasse negli anni scorsi manodopera importata dalla Polonia. Con contratti polacchi, ça va sans dire.
In un contesto in cui la privazione di diritti del lavoro è la normalità, chi la pratica in termini mafiosi passa quasi inosservato. Per le mafie, in particolare, la documentata propensione per la gestione del mercato del lavoro deriva anche dalle sue ripercussioni in termini di consenso nella società locale, vere masse di manovra da mettere in campo nel momento opportuno.
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