Casalesi a Eraclea, no imputati in aula. "Si evita il rischio di pressioni sui testi"
Seconda udienza per il “clan Donadio”: il Tribunale respinge tutte le eccezioni preliminari avanzate dalle difese

Il tavolo della pubblica accusa
MESTRE
Aula bunker, atto secondo del maxi-processo a 45 imputati in odor di camorra, accusati di aver imperato per vent’anni su Eraclea e il Veneto Orientale.
Se all’esterno il cielo è plumbeo, all’interno del fortino giudiziario è pioggia di eccezioni preliminari delle difese, con gli avvocati che attaccano ad ampio spettro: chiedono che sindacati e istituzioni non si possano costituire parte civile; dichiarano la presunta incostituzionalità del collegamento degli imputati in videoconferenza, perché verrebbe meno il diritto di difesa, che necessita di un rapporto stretto tra legale e assistito.
Tutte eccezioni respinte dal collegio, presieduto dal giudice Stefano Manduzio: codice alla mano, il Tribunale ritiene che in un processo con 37 dei 45 imputati accusati di associazione per delinquere di stampo mafioso legata al “clan dei casalesi”, la loro assenza fisica in aula assicuri «un regolare e sereno svolgimento dell’attività dibattimentale», evitando il rischio di «pressioni sulle persone chiamate a testimoniare, se non intimidazioni (magari solo larvate o silenti)».
PARTI CIVILI TUTTE AMMESSE
La seconda udienza del processo sul presunto, violento imperversare sul Veneto orientale di una banda dai metodi mafiosi - sostenuto anche dall’omertà di molte vittime taglieggiate - si è aperta con l’ammissione di tutte le parti civili pubbliche che ne hanno fatto richiesta. Nel rigettare le obiezioni delle difese, il Tribunale scrive come sia «del tutto legittima la costituzione di enti territoriali quali Regione, città metropolitana e Comune di Eraclea», per il danno all’immagine e il clamore mediatico «che la sua presenza (....) arreca all’immagine della città, allo sviluppo turistico e alle attività ad esso collegate». Palese «la pretesa lesione del diritto all’immagine del Comune di Eraclea sul quale risulta insediata, secondo l’accusa, un’organizzazione con caratteristiche di tipo mafioso, tanto più significativo perché correlato ad entità criminosa non storicamente radicata nel territorio». Come pure evidente «la legittimazione a rivendicare la lesione del diritto all’immagine per la Regione Veneto con riferimento all’intervenuto radicamento (sempre secondo l’assunto accusatorio) di una struttura criminosa con caratteristica dell’associazione mafiosa, stabilmente insediata nel Veneto, con palese ripercussione negativa sull’immagine e sulla situazione dell’imprenditoria e della politica operanti nel territorio». Quanto a “Libera: contro le mafie” - scrivono i giudici - è pienamente legittima la costituzione di una associazione che «promuove la legalità e la libertà d’iniziativa economica, tutela le vittime di mafia, usura e contrasta ogni forma di criminalità mafiosa».
Infine, sì anche alla costituzione delle segreterie Venete e veneziane di Cgil e Cisl, perché i sindacati tutelano i diritti dei lavoratori, violati da quelle accuse di intermediazione illecita di manodopera nei subappalti, contestati all’assoziazione.
Tra le parti civili, Ludovico Pasqual (l’unico imprenditore vittima di usura, che ha rotto il muro dell’omertà) e dell’ex traider Fabio Gaiatto, che sta scontando una condanna a oltre 15 anni di carcere per una maxi truffa da 26 milioni, ma la cui storia professionale s’intreccia (qui come parte offesa) con quella dell’imputo Faè.
IMPUTATI IN VIDEOCONFERENZA
Molti difensori (come l’avvocato Giuseppe Brollo, legale di Raffaele Buonanno) hanno lamentato una violazione del diritto della difesa, perché i loro clienti sono detenuti nelle carceri di tutt’Italia, collegati in videoconferenza, potendo avere con loro solo colloqui telefonici, durante il dibattimento. L’avvocato Gentilini (che insieme all’avvocato Renato Alberini di Luciano) ha paventato in questo una violazione della Costituzione.
Eccezioni tutte respinte: la videoconferenza - scrivono i giudici - è prevista dal codice anche per «evitare che la possibile presenza fisica porti con sé pressioni sulle persone chiamate a testimoniare, se non addirittura intimidazioni, magari solo larvate e silenti».
SICUREZZA ANTI-COVID
Gli avvocati si erano lamentati poi della ristrettezza degli spazi e dei pochi microfoni a disposizioni, tali da non garantire le indicazioni anti-coronavirus come il distanziamento sociale, pur in udienza dove tutti indossano la mascherina. Il presidente Manduzio ha confermato che lo Spisal aveva dato il proprio benestare. Sono poi stati messi più telefoni a disposizione per i colloqui legali-assistiti e le “cuffie” ai microfoni.
BATTAGLIA SUI TESTI
Finale con nuove eccezioni. Per l’avvocata Patterello sarebbero inutilizzabili gli atti successivi al 2011. I pm Terzo e Baccaglini hanno contestato la chiamata a testimoniare degli ex prefetti (compresa la ministra Lamorgese), avanzata dai legali di Donadio, insieme all’audizione del presidente Zaia (l’avvocato della Regione, Pinelli, si è opposto). Il Tribunale deciderà ill 22 giugno.
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