Busan pittore prestato alla satira impegno civile nato dal sarcasmo

Era uno che ha fondato un periodico chiamandolo L’Ira di Dio, che poi era la sua. Basterebbe questo per capire il tipo. Testata effimera, ma così pungente da procurargli 25 querele. Il tipo era...
Di Paolo Coltro

Era uno che ha fondato un periodico chiamandolo L’Ira di Dio, che poi era la sua. Basterebbe questo per capire il tipo. Testata effimera, ma così pungente da procurargli 25 querele. Il tipo era Vittorio Buzzanca e ne scriviamo perché ci manca da vent’anni. Morì infatti, negli ultimi giorni reso più livido di certi suoi disegni, il 9 agosto 1992. Lasciando un vuoto, come si dice; ma soprattutto un pieno: dei suoi disegni che erano pensieri, della sua arte che era denuncia, delle sue iniziative che erano cultura. Vittorio si firmava Busan, e tutti conoscevano quel suo segno penetrante, a tratti incattivito, sempre devastante per significato. Si fa presto a dire satira: lui faceva di più, non gli andava di fare affiorare un sorriso passeggero; voleva che arrivassero pugni, in faccia, nello stomaco, e che il cervello si aprisse alla critica, a una visione altra. Ci è riuscito per lunghi anni, lui e i suoi figli-fogli editoriali: non solo L’Ira di Dio, ma anche Cavallo Pazzo, L’Auto è Mobile, la Replica (che scimmiottava i caratteri di la Repubblica di cui era crasi) fino all’eloquente, per paradosso, Basta Ciacoe, percorso da un lontano sentore mazziniano (pensiero e azione) e anticipatore di una vena antipolitica, quando la politica era il politichese delle grandi ideologie in caduta libera.

Busan ferreo democratico e dark nel raccontare con le sue vignette, su questo giornale, i drammatici giorni del sequestro Moro, fino all’epilogo che distillava dalla sua penna gocce di sangue nero. Fuori dal coro dei prevedibili,. caustico e sarcastico, ischeletriva i concetti rendendoli fulminanti, trasmetteva la pesantezza della tragedia perché i nostri animi si appesantissero e reagissero. La satira per lui non era approccio ilare alla serietà dei problemi, non era ricamarci sopra un sorriso irridente: piuttosto, bisogno e urgenza di comprensione politica e sociale. Insomma, indigesto. È per questo che ce lo ricordiamo ancora, e ci ricordiamo la sua cifra diversa rispetto ai pur bravissimi Forattini, Staino, Vauro, Altan, con lui coinquilini nel famoso Satyricon di Repubblica.

Ma Vittorio Busan non era solo fulminanti vignette, che pure per anni hanno contribuito a connotare un giornale, qualche volta meglio di articolo di fondo. Vittorio ha lasciato un segno perché lui, quel segno, se l’è preso fin da quando era piccolo. All’Accademia di Belle Arti, allievo di Saetti, aveva compiutamente capito che la sua strada era comunicare con una matita, un po’ di china, dei colori sfrangiati nella sua visione di un mondo che colava via via, invece di consolidarsi. Un mondo nel quale le tenebre rischiavano sempre di vincere la lotta con il sole, e non viceversa, un mondo di cui Vittorio faceva emergere lo sfondo, piuttosto che fermarsi alle apparenze. Gran pittore, e facendolo capace di raccontare per immagini più lunghe, lontane dall’essenzialità delle vignette perché nel dipinto c’è una scena, e non solo un concetto. Prendete per esempio “L’Italia di Pietro Nenni”, pubblicata nel 1991 per i cent’anni dalla nascita del gran socialista: è una galoppata nella storia, ma soprattutto è una galoppata nel colore, nell’arte, dove magari in un angolo si trovano grandi lezioni pittoriche. L’uomo della coscienza civile si è abituato a convivere con l’artista, ne era la naturale prosecuzione, ma Busan era soprattutto pittore. C’è un suo “Ecce homo” del 1980, una crocefissione, che renderebbe densa l’atmosfera di qualsiasi chiesa. Lui, profondissimamente laico ma capace di leggere nel dolore, nei sentimenti di un’angoscia umanissima: perché spesso, questa è l’impressione, la provava anche lui di fronte alle cose del mondo. La sua arte aveva una caratteristica: era legatissima alla realtà, cioè ne prendeva spunto, anzi era proprio la realtà ad essere trasportata sulla tela o sulla carta. Ma lui lontanissimo dal realismo come forma espressiva, piuttosto una strizzata d’occhi ai simbolisti, piuttosto Busan e basta. C’è ancora piacere nell’osservare i suoi disegni, gli smalti sapidi di corpi femminili, la matita pura a tracciare segni intatti o a inseguire ombre. Un drammatico giullare, vien da definirlo: l’eventuale risata era così fuggente che lasciava posto al sarcasmo, e spesso là in fondo c’era una piega amara. Busan fondò “L’Accademia della Colonna portante” (c’era un’osteria da rugbysti a Padova, la Colonna), che era humus di intellighenzia non allineata, sparsa e libera. L’esserci, per Busan, non si esauriva nell’adoperare la sua arte: ma anche la sua testa, per stimolare, criticare. Un animale politico che univa incisività, capacità di corrosione ed educazione.

Mai alzato la voce, Busan, nel dibattito pubblico. Gli bastava una matita, ed era come un urlo.

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