Omar Camporese «Ma il mio tennis era un’altra cosa...»

Il campione bolognese, nuovo responsabile tecnico del Green Garden, con un occhio al passato e uno al futuro

MESTRE. Dritto devastante, carattere grintoso, uomo squadra. Il sunto di tutto ciò è Omar Camporese, uno dei migliori giocatori che il tennis italiano sia riuscito ad esprimere negli ultimi trent’anni. Oggi fa l’allenatore, e il suo credo sta nel tentare di trasmettere ai più giovani ciò che ha imparato in tanti anni di sfide nel circuito Atp e in Coppa Davis. Il suo arrivo al Green Garden è un messaggio al movimento nazionale: a Mestre si continua a fare sul serio e si punta sul rilancio. Camporese è la prima pietra sul nuovo futuro del Green Garden, e lui stesso spiega che «qui si vive nel Gotha del tennis, e di ricordi ne ho tantissimi, basti pensare al campionato italiano Under 14 e a tre edizioni del Venice Open. Con Sapori il rapporto è eccezionale, e sono qui per far crescere i giovani. Una nuova vita e una nuova sfida anche per me». Il tennis di oggi non è come quello che ha vissuto Camporese in prima persona. «Oggi sono tutti gran picchiatori, di Federer ce n’è solo uno purtroppo» spiega il bolognese, «negli anni Ottanta e Novanta era molto diverso, fatta eccezione per la pressione mediatica. Il tennis italiano finalmente sta ottenendo buoni risultati anche al maschile. Fino a un paio di anni fa c’erano solo le donne, invece poi sono emersi Seppi, Fognini e Bolelli. E lo stesso Lorenzi è un buon giocatore. Ma sono usciti tardi, e quel che davvero manca al tennis italiano è la capacità di vincere quando devi. In Davis, nell’ultima sfida al Kazakhistan, abbiamo perso contro tennisti di classifica inferiore. Invece ci si doveva imporre, cosa che facevamo ai nostri tempi con chi era pari o sotto di noi. Manca il pelo sullo stomaco».

Dici Camporese e pensi ai cinque set storici in Davis contro Boris Becker a Dortmund, anche se poi gli azzurri persero in quell’occasione, ma si parla di sfide leggendarie. Come un Italia-Spagna del 1992 a Bolzano. «Caspita che partita quella, contro Emilio Sanchez credo di aver giocato la più bella partita della mia vita. Lo vedevo di fronte a me, che non sapeva cosa poter fare perché non lo lasciavo neppure pensare. Un ricordo indelebile della mia carriera». Poi aggiunge: «Ora, non è perché ho giocato in quegli anni, però all’epoca c’era molto più equilibrio nei tornei. Tutti potevano battere chiunque, e oggi il tennis non è bello come allora, è esasperato più sull’atletismo e il fisico. E poi noto che si sta tralasciando il servizio, fatta eccezione per alcuni, come Raonic. Alla fine mi sono trovato in una fase di passaggio tra due epoche. Se mi manca quella vita? No, ho chiuso con quei ritmi. Ti ritrovavi da giovane a sposare la valigia e gli aeroporti, era anche uno stress, con il problema che fare risultati era ancora più complicato. Certo, giravi il mondo, conoscevi città, persone e culture. Tutto bellissimo. Ma alla lunga sfiancava. Devo molto al tennis, ma il futuro adesso è un altro».

Simone Bianchi

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