«Il mio cuore diviso tra Venezia e Salernitana mi è mancata la A, ma sono felice lo stesso»

MESTRE
Con la maglia del Venezia ha aperto e chiuso la carriera, a Salerno ha vissuto cinque stagioni importanti, ma in vent’anni di carriera gli è mancata solo la Serie A. Evans Soligo ha detto stop: dopo l’ultimo campionato di Serie B ha appeso le scarpe al chiodo, e ora per lui si apre una nuova avventura in arancioneroverde da collaboratore tecnico della Primavera e dirigente nei progetti internazionali. Smettere è sempre dura per uno sportivo.
«Se ho smesso ora è perché penso sia il momento giusto, a differenza dell’anno scorso quando arrivavo da una doppia promozione. Avevo ancora voglia di giocare in B e me lo ero posto come obiettivo dopo Salerno».
Anni particolari quelli alla Salernitana.
«Cinque e bellissimi. L’ultimo un po’ particolare con la retrocessione e quel saluto che non mi era andato giù. In quelle stagioni le abbiamo provate davvero tutte tra promozioni e annate storte, ma il clima era incredibile. Un calore dalla città che in pochi posti puoi trovare. E ancora oggi ci sono persone che mi chiamano per sentire come sto. Segnare a Salerno è pazzesco, sembra che la curva ti venga incontro».
L’idea è sempre stata quella di chiudere a Venezia?
«O a Salerno o a Venezia. La prima è una di città di adozione, la seconda è la mia, e a entrambe sono legato. Il progetto avviato da Perinetti e Tacopina in serie D mi ha convinto, anche se non era affatto facile, ma siamo riusciti a riportare il club in B e a realizzare quel sogno che avevo».
Lo scorso anno è stato però molto duro.
«A livello personale un po’ sì, è innegabile che sperassi di trovare più spazio e non solo un paio di scorci di partita contro il Foggia. Ho morso il freno ed è stata dura soprattutto mentalmente. Il fatto di non giocare, essendo abituato ad avere un ruolo da protagonista in campo, mi ha dato però tempo per pensare al futuro e ho capito che quello poteva essere il mio ultimo anno da giocatore. Lo avevo preso in considerazione e vedevo la bandiera a scacchi. Se non potevo dare il mio contributo in campo, lo davo lo stesso in allenamento e spogliatoio».
Alla fine due capitani effettivi con Domizzi?
«In D e Lega Pro l’ho fatto io, poi è toccata a lui, restando io in panchina. Ci si confrontava e si parlava, i gruppi avuti in questi tre anni sono sempre stati forti e intelligenti. Con Domizzi eravamo figure di riferimento e non abbiamo mai avuto problemi. Uno capitano fuori e uno in campo».
Chiudere a Venezia che sapore ha?
«Il fatto di tornare a Venezia era uno dei miei obiettivi, chiudere dove tutto era iniziato e dove ho sempre sperato. Gli stimoli erano tantissimi. Puoi essere profeta in patria ma a volte è più difficile, quindi ci vuole tanta concentrazione. È stato un ritorno particolare, coinciso con la rinascita del club, ma anche per me. Dopo Salerno sono stato a Pagani, Porto Tolle e San Marino, non era facile risalire».
I meriti di Perinetti?
«Tantissimi, come quelli di Tacopina e tutto il club. Si è partiti quattro anni fa con tante incertezze ma una stretta di mano che aveva tanti significati. I risultati si sono visti affidandoci a persone di valore». Veniamo ai trofei vinti con il Venezia? «Un’emozione indescrivibile la festa con il corteo acqueo in gondola per la promozione in B, una cosa unica al mondo. Vincere partendo con quell’obiettivo non era facile. Le prime due stagioni di questo Venezia possono essere sembrate una passeggiata, ma non è così».
Merito di Parma e Campodarsego?
«Sì, perché senza di loro avremmo vinto i campionati a marzo. Avevamo una rosatalmente ampia e di qualità che potevamo sostituirci e il livello restava altissimo».
Inzaghi?
«Per certi versi l’allenatore più martellante che abbia mai avuto, ma andavamo d’accordo perché avevamo lo stesso regime alimentare».
Il Foggia lascia il segno?
«Sì, è curioso che le ultime tre partite ufficiali le abbia fatte contro quella squadra: una persa, una pareggiata e una vinta, almeno sono andato in crescendo».
Il calcio cosa è stato per Soligo?
«Tutto o quasi. Fin da piccolo te lo senti dentro, il pallone ti scorre nelle vene. Appena vedi una cosa rotonda la prendi a calci. Sogni di diventare un giocatore di serie A. Dentro sentivo quel fuoco che mi attirava verso il pallone. Sono stato un buon giocatore, se non hai grandi doti devi buttarti sulla costanza di rendimento e questo mi ha ripagato. Mi è mancata la serie A, ma sono contento lo stesso». —
Riproduzione riservata © La Nuova Venezia