Carrey oltre la maschera «Io sovversivo del cinema»

Ovazione per l’attore al Lido con il backstage di “Man on the Moon” di Chris Smith «Esiste un’energia a cui noi diamo un’etichetta. Ma non siamo altro che idee»
«Non sono solo uno che fa smorfie», dice Jim Carrey. Del resto nessuno, al Festival, lo ha mai pensato. Al Lido nel 1998 arrivò con “The Truman Show”, uno dei film più significativi del secolo scorso, e tutti si resero conto che quell’attore non stava solo riaggiornando il modello Jerry Lewis - «un genio che ha avuto una grande influenza su di me. Avevamo un collegamento telepatico» -, semplicemente stava diventando uno dei più grandi artisti del cinema americano. Complesso e irriverente, forte di una faccia di “gomma”, capace dare un colore a tutte le emozioni, dalla commedia al dramma. L’anno successivo fu la volta di “Man on the Moon”, e nel 2005 arrivò il terzo Golden Globe per “Se mi lasci ti cancello”, «ero a pezzi» per la fine dell’amore con Renée Zellwegger «e Michel Gondry mi diede la parte ma dovetti restare a pezzi ancora un anno in attesa delle riprese per mantenermi come mi voleva lui» racconta.


Ieri ha accompagnato un documentario verità tanto bello quanto complesso come il suo titolo: “The Great Beyond - The Story of Jim Carrey & Andy Kaufaman with a Very Special, Contractually Obligated Mention of Tony Clifton” di Chris Smith che nel raccontare il backstage di “Man on the Moon”, il film del 1999 diretto da Milos Forman sul comico irriverente, sopra le righe, eccentrico, burlone Andy Kaufman (morto prematuramente di cancro) e del suo bizzoso irascibile alter ego Tony Clifton, entrambi interpretati da Jim Carrey, una «meditazione sul concetto di verità, successo, sogni, arte». “The Great Beyond...” restituisce perfettamente l’incredibile lavoro che Carrey ha fatto per “diventare” Kaufman. Il verbo non è casuale, perché Carrey sul set non c’era mai, al suo posto Andy o peggio Tony, arrivati da una dimensione altra, come per l’ultima impossibile gag. Far «tornare in vita quell’incredibile talento» è una sorta di seduta analitica, con cui l’attore si è lasciato andare a ripercorrere la sua vita, la sua voglia di libertà. «Mi sono lasciato andare al flusso di energia, mi sono sentito al sicuro» spiega. Ed eccolo Carrey, nel suo personaggio più vero, naturalmente empatico, lo sguardo malinconico - lascito di anni difficili segnati dalla depressione -, a tratti smarrito che tra una domanda e l’altra forza la maschera naturale dell’eterno re della festa - «mi ha dato dello stronzo? Ma è matta?» domanda all’interprete fingendosi scioccato -. Ma maschera è una parola da usare con cura parlando di Jim Carrey. Anche se con una maschera è nato come attore: “The Mask” appunto, “Ace Ventura”, “Scemo & più scemo”. «Questo film è gratificante, è bello che non mi si veda solo come una persona che fa smorfie, come una maschera, ma si capisca il mio lavoro» dice «tutti i miei film hanno un significato, tutti gli aspetti, anche quelli più ridicoli del mio lavoro hanno un significato spirituale per me». Esuberante e fragile a un tempo, cifra di un talento smisurato che l’Academy non ha mai voluto premiare. Sarà perché «da giovane volevo diventare un attore, avere successo ma non volevo essere parte di quel sistema, volevo distruggere Hollywood e quelli che hanno sempre la risposta pronta, tipo Clint Eastwood, prendere in giro i leader del cinema. Sono sempre stato sovversivo in questo senso. L’onestà è sovversiva nella città delle maschere. E quando uno è autentico come sono io, è difficile per chi gli sta di fronte indossare una maschera. Non possiamo liquidare la mia personalità con “io” o “me”, non esiste che un’energia a cui noi diamo un’etichetta. Ma in realtà non siamo altro che idee». Da troppo tempo non interpreta più quei ruoli di primo piano che lo hanno reso una star. Si è dedicato alla pittura, passione che lo accompagna fin da bambino. Eppure il pubblico lo osanna grato di quei viaggi condivisi, tra risate e lacrime. Oltre la maschera.


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