«Sì preghiere in italiano ma non in periferia»

«L’utilizzo dell’italiano nel sermone e all’interno dei luoghi di culto è una forma di integrazione». Mohamed Amin Al Ahdab, presidente della comunità Islamica di Venezia e Provincia, ne è convinto. E porta l’esempio della festa di fine Ramadan, quando vengono invitati imam di diversi Paesi, per facilitare la comprensione tra gli stessi fedeli che parlano lingue diverse con tanto di traduzione simultanea e discorso in italiano, che diventa la lingua che unisce le diverse frange di musulmani, un po’ come il latino nell’Impero romano.
Il presidente commenta in questo modo, come già aveva fatto quando era stata approvata, la bocciatura da parte della Consulta della Corte Costituzionale, dell’articolo della legge urbanistica varata dal consiglio regionale del Veneto che «obbliga i frequentatori di un luogo di culto a utilizzare la lingua italiana».
Le comunità integrate - fa capire - non hanno bisogno di obblighi, né di leggi che revochino divieti, l’italiano è utile perché a frequentare un centro islamico sono fedeli di etnie e lingue differenti. «Noi utilizziamo l’italiano, non è una novità: oggi che era venerdì (ieri ndr), abbiamo tenuto il sermone in arabo e bengalese, e come sempre in italiano. Per noi l’italiano dev’essere usato, siamo d’accordo: se vuoi vivere bene in un Paese devi maneggiare la lingua di quel Paese per esserne parte integrata, inutile ghettizzarsi all’interno di un altro ghetto. Non dovrebbe neppure esserci l’obbligo, dovrebbe essere spontaneo usare l’italiano».
A imporre lacci, invece, è il complesso urbanistico della legge che, al contrario, limita l’attività di preghiera. Prosegue: «Quello che invece non ci convince e lo abbiamo sempre detto, è la parte urbanistica della legge, che è ingiusta perché impone vincoli al diritto di culto laddove complica la possibiltà di poter trovare un luogo adatto dove ritrovarsi. Non ci si può nascondere dietro un dito: il legislatore che pianifica la città e ha una grande massa come quella dei musulmani, fermo restando che la Costituzione sancisce il diritto di esprimere la propria fede, non può non tenere in considerazione il problema, perché se lo chiudo fuori dalla porta entra dalla finestra. Per questo devo preoccuparmi di individuare delle aree, (non mettere necessariamente i soldi), dove consentire il culto. Ma non delle cattedrali nel deserto come dice la legge - ricavate in periferia il più lontano possibile - che impone paletti e ci complica la vita quasi fossimo nemici. È la stampa che l’ha nominata legge anti-moschee, non noi». Conclude: «Tutto si risolve parlando e confrontandosi, ma quando hanno pensato questa impostazione, non hanno interpellato nessuno, né noi né le altre “minoranze” religiose». (m.a.)
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