«Qui prendiamo solo roba italiana» Il ristorante rifiuta il lavapiatti africano

Don Capovilla, parroco di Marghera, aveva accompagnato un giovane immigrato in un locale che cercava personale
Durante l'incontro a Sacrofano con le realtà di accoglienza "Liberi dalla paura", papa Francesco si è fatto ritrarre con la spilletta che riporta lo slogan "Apriamo i porti". Come raccontato da Avvenire e documentato dalle foto, è successo quando don Nandino Capovilla, parroco a Marghera (Venezia), si è avvicinato al papa Francesco che ha preso la spilla in mano e si è fatto fotografare. Le immagini sono state rilanciate dal parroco sul suo profilo facebook, 17 febbraio 2019..PROFILO FACEBOOK DI NANDINO CAPOVILLA +++ATTENZIONE LA FOTO NON PUO' ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L'AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA+++
Durante l'incontro a Sacrofano con le realtà di accoglienza "Liberi dalla paura", papa Francesco si è fatto ritrarre con la spilletta che riporta lo slogan "Apriamo i porti". Come raccontato da Avvenire e documentato dalle foto, è successo quando don Nandino Capovilla, parroco a Marghera (Venezia), si è avvicinato al papa Francesco che ha preso la spilla in mano e si è fatto fotografare. Le immagini sono state rilanciate dal parroco sul suo profilo facebook, 17 febbraio 2019..PROFILO FACEBOOK DI NANDINO CAPOVILLA +++ATTENZIONE LA FOTO NON PUO' ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L'AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA+++



«Noi prendiamo solo italiani. Anzi, solo roba italiana». Come fosse una garanzia di qualità, una certificazione, una corsia preferenziale. Solo che la “roba” in questione ha a che fare con una persona, respinta a priori per un semplice motivo: il colore della pelle. È il racconto sbigottito di don Nandino Capovilla, parroco a Marghera, affidato alle parole di un lungo post, su Facebook. «Se l’avessi letto su Internet», esordisce, «avrei pensato a un’esagerazione, ma siccome è accaduto a me dopo aver ritenuto che sarebbe stato meglio lasciar perdere, eccomi ad esprimere pubblicamente lo sconcerto».

I fatti risalgono a giovedì mattina. Don Capovilla arriva in un noto ristorante di Spinea, di cui preferisce non fare il nome. Qui incontra il titolare, chiede se sia vero o meno che il locale sia alla ricerca di un lavapiatti. In prima linea sul tema dell’accoglienza, sono tanti i giovani rifugiati in cerca di lavoro ospitati dal parroco della Cita e dall’associazione Casa di Amadou di Marghera. «Dopo la sua risposta», sono le sue parole, «il responsabile si sarà senz’altro accorto che sono rimasto talmente scosso e impallidito, da fargli aggiungere preoccupato: “Ma vuole un bicchiere d’acqua?”». È la schiettezza di quelle parole a far vacillare il parroco della chiesa della Resurrezione, a Marghera. Un pugno allo stomaco, nemmeno addolcito (si fa per dire) dalla classica formula di chi non si professa razzista “ma…”. Il titolare va dritto al punto: «Noi prendiamo solo italiani», è il resoconto di don Capovilla, «anzi, per essere preciso, ha detto senza vergogna: “Da noi prendiamo solo roba italiana”». Le argomentazioni del titolare, poi, non si sarebbero fermate lì. La scelta di non assumere ragazzi se non italiani sarebbe una precisa scelta “etnica”: pelle nera, no grazie. Il titolare viene affiancato dalla moglie. E qui la giustificazione si arricchisce di dettagli. Per di più, senza alcun imbarazzo a parlare in libertà «davanti a uno sconosciuto, un cittadino, un prete». I clienti che frequentano il locale, spiega la coppia, «preferiscono vedere italiani». «Insomma», concludono i due nelle parole riportate dal prete, «è un desiderio preciso dei clienti e una scelta del locale: solo italiani».

Sia mai che, alla vista di un lavapiatti rifugiato, il boccone vada di traverso alle famiglie di residenti. Quest’ultime, almeno, rigorosamente italiane. E qui, don Nandino continua nella sua riflessione: «Non ho dormito la notte al pensiero di quale livello di barbarie sociale abbiamo raggiunto e ho meditato a lungo su due ipotesi: lasciar stare e far finta che non fosse successo oppure assecondare la stessa logica della distruzione dell’altro, denunciando il fatto dichiarando il nome del locale. Tacere e giustificare, magari per l’età e il caldo o umiliare una persona istigando ancor peggiori atteggiamenti di intolleranza e togliendole la possibilità di riconoscere il suo errore e cambiare».

E così, a prevalere è il senso civico. E come «cittadino e cristiano angosciato per l’aggressività e il razzismo ormai sdoganato ovunque», la scelta di una terza soluzione: «Ritornare in quel locale con qualche giovane rifugiato e invitare il titolare a bere un caffè alla nostra tavola». Per convincerlo che, al mondo, non esiste solo la “roba italiana”. —





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