«Qui prendiamo solo roba italiana» Il ristorante rifiuta il lavapiatti africano

«Noi prendiamo solo italiani. Anzi, solo roba italiana». Come fosse una garanzia di qualità, una certificazione, una corsia preferenziale. Solo che la “roba” in questione ha a che fare con una persona, respinta a priori per un semplice motivo: il colore della pelle. È il racconto sbigottito di don Nandino Capovilla, parroco a Marghera, affidato alle parole di un lungo post, su Facebook. «Se l’avessi letto su Internet», esordisce, «avrei pensato a un’esagerazione, ma siccome è accaduto a me dopo aver ritenuto che sarebbe stato meglio lasciar perdere, eccomi ad esprimere pubblicamente lo sconcerto».
I fatti risalgono a giovedì mattina. Don Capovilla arriva in un noto ristorante di Spinea, di cui preferisce non fare il nome. Qui incontra il titolare, chiede se sia vero o meno che il locale sia alla ricerca di un lavapiatti. In prima linea sul tema dell’accoglienza, sono tanti i giovani rifugiati in cerca di lavoro ospitati dal parroco della Cita e dall’associazione Casa di Amadou di Marghera. «Dopo la sua risposta», sono le sue parole, «il responsabile si sarà senz’altro accorto che sono rimasto talmente scosso e impallidito, da fargli aggiungere preoccupato: “Ma vuole un bicchiere d’acqua?”». È la schiettezza di quelle parole a far vacillare il parroco della chiesa della Resurrezione, a Marghera. Un pugno allo stomaco, nemmeno addolcito (si fa per dire) dalla classica formula di chi non si professa razzista “ma…”. Il titolare va dritto al punto: «Noi prendiamo solo italiani», è il resoconto di don Capovilla, «anzi, per essere preciso, ha detto senza vergogna: “Da noi prendiamo solo roba italiana”». Le argomentazioni del titolare, poi, non si sarebbero fermate lì. La scelta di non assumere ragazzi se non italiani sarebbe una precisa scelta “etnica”: pelle nera, no grazie. Il titolare viene affiancato dalla moglie. E qui la giustificazione si arricchisce di dettagli. Per di più, senza alcun imbarazzo a parlare in libertà «davanti a uno sconosciuto, un cittadino, un prete». I clienti che frequentano il locale, spiega la coppia, «preferiscono vedere italiani». «Insomma», concludono i due nelle parole riportate dal prete, «è un desiderio preciso dei clienti e una scelta del locale: solo italiani».
Sia mai che, alla vista di un lavapiatti rifugiato, il boccone vada di traverso alle famiglie di residenti. Quest’ultime, almeno, rigorosamente italiane. E qui, don Nandino continua nella sua riflessione: «Non ho dormito la notte al pensiero di quale livello di barbarie sociale abbiamo raggiunto e ho meditato a lungo su due ipotesi: lasciar stare e far finta che non fosse successo oppure assecondare la stessa logica della distruzione dell’altro, denunciando il fatto dichiarando il nome del locale. Tacere e giustificare, magari per l’età e il caldo o umiliare una persona istigando ancor peggiori atteggiamenti di intolleranza e togliendole la possibilità di riconoscere il suo errore e cambiare».
E così, a prevalere è il senso civico. E come «cittadino e cristiano angosciato per l’aggressività e il razzismo ormai sdoganato ovunque», la scelta di una terza soluzione: «Ritornare in quel locale con qualche giovane rifugiato e invitare il titolare a bere un caffè alla nostra tavola». Per convincerlo che, al mondo, non esiste solo la “roba italiana”. —
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