Le quattro puntate del racconto "Nella Gabbia"

"Nella Gabbia" è un progetto musicale e letterario realizzato da Stefano Cosmo e il bluesman Mr.Wob Andrea Facchin, dove blues e noir si incontrano per raccontare le avventure di Moreno Zanon, alias “il Barba”.
Ecco le puntate pubblicate da "La Nuova Venezia", per i nostri lettori

Salgo sul ring
per scappare
dal mio passato

il “barba”, marghera, l’illegalità e i ricordi di bambino

L’ultima ripresa è sempre la più dura. Il tuo avversario lo hai già inquadrato, sai come reagisce, i punti forti li hai capiti e pensi a fregarlo. Ma non è così semplice: lui vuole fare lo stesso con te. L’adrenalina pompa nelle vene, le gambe sono stanche, il fiato comincia ad accorciarsi, la testa è pesante per i colpi subiti e tenere su la guardia diventa ogni secondo più difficile. Se ti distrai un attimo è finita. Il mio avversario non vede l’ora di chiudere questa dannata ripresa, glielo leggo negli occhi. Vuole mettermi al tappeto e lo vuole fare in gran stile, davanti a tutti. Grosse gocce di sudore gli imperlano la testa rasata; lo sguardo nasconde la determinazione e il desiderio di alzare al cielo un trofeo. Io invece non sono così; non mi importa nulla della coppa: voglio i soldi della borsa. Ne ho bisogno per mantenere le mie promesse. Ma la stanchezza è bastarda. Testarasata si avvicina, finta un calcio al tronco e mi colpisce con un diretto al viso. Mi becca in pieno e finisco contro le corde; sento le orecchie fischiare, le cervicali fanno lo stesso rumore di un fascio di rametti spezzati, il campo visivo si restringe e le ginocchia cedono. Lo vedo alzare le braccia, la figura bianca dell’arbitro si avvicina. Inizia a contare, inesorabile. Vorrei rialzarmi ma tutto gira. Pensate sia un duro, vero? Perché salire su un ring per combattere è da guerrieri. Mi dispiace deludervi, ma sono solo un uomo che prova a scappare dal suo passato, dalla sua gabbia, senza mai riuscirci. Per farlo c’è chi cambia lavoro, convinto che la firma in un contratto regali un’identità nuova. Ci sono quelli che si sposano, mettono al mondo un figlio e gli danno la responsabilità di cambiare le cose. Io invece mi sono messo i guantoni perché era l’unica altra cosa che sapevo fare, oltre a mettermi nei guai. Non sono stato sempre uno sportivo, la mia vita è più simile a quella di un pugile nero venuto fuori da un ghetto che a quella di un samurai senza macchia e senza paura. Di macchie sulla coscienza ne ho fin troppe e paure altrettante; perché prima di cominciare a combattere da professionista, prima di aprire la mia palestra spartana, prima di farmi crescere la barba e riempirmi il corpo di tatuaggi, ero un criminale. L’arbitro continua a contare, mi sembra di non avere nemmeno le forze per respirare ma i ricordi... quelli partono da soli. Il mio nome è Moreno Zanon, detto “Il barba”. Mi guadagno da vivere combattendo e insegnando arti marziali nella mia palestra dentro Forte Marghera. E questa è la mia storia. Ero un ragazzo come tanti altri, solo con qualche inclinazione verso l’illegalità. D’altra parte, nella zona di Marghera dove sono cresciuto, era davvero difficile restare fuori dai guai. Soprattutto con un fratello maggiore già avviato al crimine. Quando avevo sedici anni Marco mi portava con sé per fargli da palo mentre rubava autoradio nel parcheggio della stazione. A diciotto lo affiancavo nei furti. Andavamo in zona porto nottetempo e ci intrufolavamo dentro i camion parcheggiati per poi rivendere la merce nei garage del quartiere Rana. Avevo poco più di vent’anni quando si mise a spacciare. Voleva seguire il flusso di affari che rendeva di più tra Mestre e Marghera, ma io me ne chiamai fuori. La mia non fu una scelta dettata da principi morali, bensì da due questioni reali. La prima era che tutti quelli che si mettevano a spacciare a Marghera finivano a Santa Maria Maggiore o ridotti peggio di quelli a cui vendevano la roba. La seconda era che i tossici mi stavano sul cazzo. O meglio, mi stavano sul cazzo perché spesso mi facevano invidia. Andavano in giro come un esercito di zombi, sbattendosene le palle di tutto, tanto qualche povero diavolo disposto ad aiutarli lo trovavano sempre. Gli sbirri non li menavano, perché avevano paura di tornare a casa con qualche malattia. Non che avessero tutti i torti: tra i tossici giravano scabbia, epatite, Hiv e sifilide. Gino detto L’indiano le aveva tutte. Come avrete capito la zona dove io e Marco siamo cresciuti non era proprio la Beverly Hills del Nordest. I nostri vicini di casa erano uomini e donne che conoscevano bene il carcere, ma tra loro c’era anche gente onesta le cui giornate erano scandite dalle sirene del Petrolchimico e della Fincantieri. Poi la nuova generazione di banditi in giacca e cravatta ha fatto chiudere tutto, spostando metà popolazione negli uffici di collocamento. Chi aveva buon occhio e sapeva tenere la bocca chiusa poteva concludere affari d’oro nei garage della nostra zona: c’erano elettrodomestici e telefonini usati, oggetti vari e da quando la Jugoslavia era diventata ex, ogni tanto si vedevano passare vecchi Kalashnikov e qualche mitraglietta Skorpion. Ai brigatisti piacevano abbastanza. Alla Rana si potevano trovare merci di ogni tipo, ma anche informazioni e personaggi strani. Uno di questi era mio fratello. Spacciatore, picchiatore, ricettatore, ladro e, infine, rapinatore. Lo arrestavano sempre allo stesso modo: bussavano alla porta di casa alle cinque del mattino, mettevano a soqquadro tutto e lo portavano via. Lili, la sua compagna, ha rischiato più volte di farsi arrestare per aggressione a pubblico ufficiale. Il maresciallo dei carabinieri era un tipo in gamba e non le ha mai fatto nulla. Non ho mai capito quella donna. Era la più bella del quartiere, qualunque bravo ragazzo avrebbe dato una mano per passare una notte con lei ma Lili, fin da ragazzina, aveva scelto Marco, senza mai abbandonarlo. Più mio fratello ne combinava più quella ragazza sembrava amarlo. S’incazzava, parlava male di lui con tutti ma alla fine si faceva in quattro per pagare l’avvocato e tirarlo fuori di galera. Proprio come mia madre. Non ho mai incontrato altre donne così e non so dirvi se sia un bene o un male. Hanno beccato anche me un paio di volte, ma grazie alle ampie maglie della legge e a un po’ di fortuna non sono mai finito dentro, cavandomela con qualche denuncia e dosi massicce di manganellate da parte degli sbirri. Uno dei ricordi più vivi della mia adolescenza è la frase che mio fratello urlava quando lo arrestavano: «Perché venite da me? Prendete sempre i pesci piccoli e i pesci grossi mai» la pronunciava facendo battere la “r” sul palato come solo noi a Marghera sappiamo fare. Per quanto possa sembrare retorica e fatta, quella frase aveva un fondo di verità. I pesci grossi, come li chiamava Marco, non mancavano dalle mie parti. Uno di questi era Maurizio Tagliapietra e io lo conoscevo bene. Se il mio passato è così ingombrante, è anche colpa sua.



Quel lavoro
in nero cambiò
la mia vita
l’albergo-bettola del signor maurizio. poi, all’improvviso, la svolta


A Marghera lo conoscevamo tutti bene, il signor Maurizio. Scorrazzava a trenta all’ora a bordo di una Fiat Uno dell’87 dal colore improponibile, una via di mezzo tra il giallo senape e il verde acido. Parcheggiava sempre in sosta vietata o sopra il marciapiede e mai una volta che prendesse la multa. Era un uomo schivo ma sempre educato e generoso. Secondo alcuni fin troppo per essere solo un povero pensionato. E avevano ragione: ogni mese si presentava dal parroco con una busta gonfia di denaro contante. Secondo la perpetua, che lo raccontava in giro per tessere le lodi di quell’uomo, era un’offerta per le attività parrocchiali. Secondo altri invece era un regalino per qualche intercessione del prete negli affari del signor Maurizio. Il nostro uomo d’affari non faceva solo sostanziose offerte. Acquistava anche le divise per la squadra di calcio, tutto in contanti, perché a lui non serviva nulla di scritto. O almeno così diceva. Nel corso degli anni aveva accumulato una fortuna, riuscendo sempre a farsi passare per nullatenente. Era proprietario di vari immobili intestati a moglie, figli, parenti, qualcuno perfino a dei prestanome. «Tutto qui?» direte voi. Nossignori. Era socio di varie attività commerciali, tra cui bar, ristoranti, negozi senza mai figurare in nessun documento perché per il fisco il nostro signor Maurizio era uno dei tanti pensionati che faticavano ad arrivare alla fine del mese. La domenica mattina accompagnava la moglie a messa e dopo andava nella pasticceria dietro la chiesa a comprare un vassoio di paste, lasciando il resto come mancia per la figlia del proprietario, alla quale faceva sempre l’occhiolino. Anche se aveva solo dodici anni. Quando ero ragazzo Maurizio veniva a vedere spesso i miei incontri di kickboxing. Suo nipote gareggiava nella mia stessa categoria di peso; io, puntualmente, lo riempivo di botte. Mi stava proprio sulle palle quel ragazzo. La vera svolta nella mia vita avvenne un pomeriggio di maggio. Me ne stavo seduto con mio fratello Marco al bar. L’aria si stava scaldando e le giornate cominciavano ad allungarsi. Il signor Maurizio arrivò a piedi e senza nemmeno salutarmi mi propose un lavoro come guardiano notturno in un albergo. Era il 2000 o forse il 2001, non ricordo con esattezza ma ciò che posso dire senza ombra di dubbio è che volevo lasciarmi alle spalle due anni pesanti: una denuncia per rissa, una per furto e un pestaggio dal quale ero uscito conciato piuttosto male. Data la mia giovane età il giudice era stato clemente e aveva sospeso la condanna affidandomi ai servizi sociali, i quali dovevano aiutarmi a trovare un lavoro e a farmi mettere la testa a posto. La cosa si era rivelata più difficile del previsto e dal momento che in giro non facevano certo la fila per assumere uno come me, accettai il lavoro. Ora, a dodici anni da quel momento, vorrei tanto non averlo mai fatto. Cominciai a lavorare una settimana dopo. L’albergo era poco più di una bettola e vi alloggiavano molti operai. Dovevo assicurarmi che dalle dieci di sera alle sei del mattino i ladri non entrassero nel parcheggio per rubare cavi di rame e attrezzature da lavoro. Il tutto in cambio di diecimila lire all’ora. Non sapevo se Maurizio fosse a conoscenza dei miei problemi con la giustizia, ma pareva non curarsene; di conseguenza, non me ne curavo nemmeno io. La prima sera mi presentai con il libretto del lavoro. «E questo?» disse guardandolo. «È per il contratto, avrei bisogno di qualcosa di scritto... ho chiesto un piccolo prestito e hanno bisogno di una garanzia». Non volevo dirgli che in realtà ne avevo bisogno per via della sospensione di pena e per scrollarmi i servizi sociali di dosso. Mi guardò storto. «Sì, tienilo pure, facciamo tutto più avanti» rispose vago. Il lavoro era semplice. Noioso ma semplice. Mi portavo da leggere e da fumare e le ore scorrevano più veloci. Ogni notte, prima di cominciare il turno, il mio datore di lavoro si lamentava di quanto gli costavano il sottoscritto e le donne delle pulizie. Diceva che aiutava molte persone dando loro un lavoro, ricevendo in cambio solo ingratitudine. Stellina... e meno male che le pagava solo tremila lire l’ora. In nero. Se la prendeva con “lo Stato sanguisuga” e rimandava il momento in cui avrebbe dovuto mettere nero su bianco la mia assunzione. Davanti alle sue continue lamentele mi limitavo ad annuire: avevo imparato prima di molti miei coetanei quando era il momento di stare zitti. Grazie al mio atteggiamento guadagnai la fiducia di quell’uomo; dopo appena un mese di lavoro, mi consegnò le chiavi di alcune stanze. Disse che erano per alcuni clienti “speciali”, gente alla quale non bisognava chiedere i documenti o fare domande. Lì per lì non capii il motivo di tutta quella riservatezza, poi mi fu chiaro. In quelle stanze fornitori, uomini d’affari e qualche burocrate della pubblica amministrazione incontravano dei puttanoni come ricompensa per i favori fatti al signor Maurizio. Andando via mi lasciavano delle mance discrete, così alla fine del mese riuscivo a mettere da parte un bel gruzzolo. Una volta venne pure il parroco con tanto di barba finta e cappello calato sugli occhi per non farsi riconoscere. Fu l’unico a non lasciare la mancia, il bastardo. Chissà, forse aveva ricevuto una soffiata sulle pecorelle smarrite che bazzicavano dentro l’albergo... Nessuna notte era uguale dentro a quel posto. Alcune erano attraversate da un silenzio irreale, altre scorrevano veloci, altre sembravano non finire mai. Qualcuna era intrisa di malinconia, altre invece mi facevano guardare al futuro come a qualcosa di bello. Fu una di quelle notti che la mia vita cambiò per sempre. Stavo facendo il solito giro all’interno del parcheggio quando una vecchia auto varcò il cancello. Le andai incontro facendo cenno con la torcia di parcheggiare pensando che fosse uno dei tanti “clienti speciali”. Guardai meglio e riconobbi la carretta di Maurizio. Scese e mi salutò con un buffetto sulla guancia. «Tra poco arriverà un signore con una Mercedes nera, accompagnalo dentro e chiudi la porta. Non far entrare nessuno» ordinò. In mano aveva una sacca sportiva che sembrava essere piuttosto pesante; mi offrii di aiutarlo, ma rifiutò. L’uomo del Mercedes giunse poco dopo. Era un tipo elegante, dall’accento dell’Est. Feci come mi era stato detto e, prima di sedersi di fronte al mio datore, mi lasciò diecimila lire di mancia. Lo ringraziai e tornai fuori a fare il cane da guardia. Di tanto in tanto li sentivo alzare la voce. Passata un’ora, mi avvicinai a una finestra che dava sul piccolo ufficio in cui si erano riuniti. Sbirciai all’interno e proprio in quell’istante vidi Maurizio gettare la sacca sopra il tavolo. L’uomo dell’Est la aprì e ne tirò fuori alcune mazzette da cinquanta e centomila lire. Ben nascosto dal buio, spalancai la bocca: non avevo mai visto così tanti soldi. Il tizio le contò con la rapidità di chi è abituato a maneggiare grosse somme di denaro, le rimise dentro la sacca e la tirò a sé. «Ora è fatta. Il ristorante è tutto tuo. Ci vediamo il diciotto per l’altro» lo sentii dire, poi uscì dall’ufficio e se ne andò. Maurizio rimase con me e fumò, atteggiandosi a grande uomo d’affari. «Tutti uguali gli slavi... attaccati al denaro peggio degli ebrei» commentò quando il suo socio fu lontano. Mi limitai ad annuire, facendogli credere di essere d’accordo. Il vecchio faccendiere continuò a parlare, soffiando di tanto in tanto il fumo verso l’alto. Si vantò dell’acquisto del ristorante che il 18 luglio sarebbe diventato suo. E in contanti. «Chi hai di fronte deve vederli, i soldi. È così che si fanno gli affari. Quel romeno voleva 270 milioni. Sono riuscito a tirare il prezzo fino a 200 perché averceli davanti fa tutto un altro effetto che vederli scritti su un pezzo di carta. Farò un ristorante tipico veneziano, solo piatti di pesce a prezzi modici. Ho un socio in Croazia che mi procura i migliori crostacei dell’Adriatico. Sarà una gallina dalle uova d’oro, e se ti comporti bene, Moreno, ti metterò lì con un bel contratto. Ho bisogno di gente sveglia» disse dandomi una pacca sulla spalla. Lo ringraziai ma in testa avevo solo un’immagine: quella vecchia sacca piena di banconote.



Allo Zombie Bar
pensando
alla rapina


Il giorno dopo andai a bere una birra con Marco in quello che chiamavamo Zombie bar. Durante gli anni ottanta e parte dei novanta era stato un ritrovo per “tossici” che si aggiravano fuori come morti viventi. Ogni tanto qualcuno andava in bagno a farsi, e non ne usciva più. Lo avevano aperto e chiuso di continuo, ma il soprannome aveva iniziato a girare e per molti era rimasto Zombie Bar. Raccontai a mio fratello della sacca e della transazione che sarebbe avvenuta a breve. Non so perché lo feci: una parte di me voleva stare fuori dai guai e continuare a vivere serenamente, ma il problema era l'altra parte, quella che fino a quel momento mi aveva messo in mezzo ai casini. Se solo avessi immaginato le conseguenze di quella chiacchierata, mi sarei ingoiato la lingua. Appena finii di parlare gli occhi di mio fratello brillarono. «Non ci pensare nemmeno Marco, te l’ho detto così, tanto per parlare». «No, Moreno: tu non me l’hai detto perché vuoi mettere le mani su quei soldi, e ti capisco. Un’occasione del genere non passa spesso nella vita...» ribatté avvicinandosi per non farsi sentire. «Guarda bene la situazione: abbiamo un vecchio che finge di essere un povero pensionato quando in realtà è un figlio di puttana che dorme su un materasso gonfio di denaro. Pensa di essere furbo ma è talmente taccagno e sprovveduto da non avere nessuno che gli guardi le spalle». Di fronte a quelle parole sbottai. «Possibile che devi sempre pensare a fregare qualcuno? Voglio stare fuori dai guai, e nemmeno a te farebbe male. Soprattutto per Lili. Prima o poi quella donna ti accoltellerà nel sonno se continui a farti beccare». Mio fratello scosse la testa in segno di disapprovazione. «Ah quindi sarei io quello che pensa sempre a fregare qualcuno? Dimmi un po' Moreno... quanto ti paga l'amico Maurizio per fargli da cane da guardia tutta la notte, sei giorni la settimana?» «Diecimila l’ora», risposi. «Naturalmente con un bel contratto dove hai i tuoi contributi, la malattia, l'infortunio... è così vero?», domandò. «Devo ancora firmare». Marco scoppiò in una risata. «Certo, come no. E pensi che ti servirà per toglierti dalle palle i servizi sociali, non è così? Che ti ha fatto quel tipo, il lavaggio del cervello? Non firmerai nessun contratto, fratellino, sveglia. Uno che sbatte sopra un tavolo centinaia di milioni in contanti può metterti in regola facendo una telefonata, ma non lo farà. E lo sai perché?» Misi in bocca una manciata di patatine e aspettai la risposta. «Perché di te non gliene frega nulla, a lui interessa solo fregare il prossimo e portarsi a casa più soldi possibile. Tutti guadagnati sulle spalle di quelli come te». «Quindi tu vorresti fare come Robin Hood, o come Lupin, intrufolandoti dentro casa sua per rubargli la cassaforte?», lo provocai. «No... questa volta no Sarà lui a portarceli. Una cosa rapida e indolore: lo rapiniamo il giorno stesso in cui fa la transazione», sussurrò. Lo guardai, poi fu il mio turno di scoppiare a ridere. «Tu sei scemo, Marco. Quel vecchio non si farà soffiare il malloppo da sotto il naso. Denuncerà tutto e ci beccheranno perché noi non siamo rapinatori. Ma te ne rendi conto delle conseguenze? Con te buttano via la chiave e io sconto le condanne che mi hanno sospeso». «Usa la testa, Moreno», mi disse con tono acceso, «il vecchio non potrebbe mai fare una denuncia per i soldi guadagnati illegalmente su attività non sue. Sarà facile, vedrai». Mio fratello parlava con occhi carichi di energia. Pessimo segno. «No, Marco. È troppo rischioso organizzare una cosa del genere in fretta e furia, e poi te l’ho detto: voglio restare fuori dai casini», provai a convincerlo. «Lascia che ti faccia un'ultima domanda, Moreno: quando hai visto quei soldi a cosa hai pensato?>> Provai a chiudere quella conversazione, ma fu inutile. «Non ho voglia di continuare a...» «Te lo dico io a cosa hai pensato...», mi interruppe, «...al regalino che potresti fare alla tipa con cui esci, a una serata dove fai il signore offrendo tutto agli amici, alla palestra che ti potresti aprire. E hai fatto bene perché sono cose che potresti fare... basta solo allungare la mano». Scossi la testa e mi alzai. Ne avevo abbastanza. «Buonanotte, Marco». Il giorno dopo mi svegliai stanco e incazzato. Non avevo chiuso occhio per via delle parole di mio fratello. Mi considerava un illuso per credere a uno come Maurizio, e forse aveva ragione. Non volevo ammetterlo, forse perché per la prima volta in vita mia stavo cercando di guadagnarmi dei soldi onestamente e ci stavo riuscendo. Mancava solo un contratto di lavoro regolare ed era fatta. La sera stessa, appena montai di turno in albergo, decisi di affrontare la questione. Chiesi a Maurizio se aveva due minuti da dedicarmi; lui annuì, scocciato. «Volevo sapere quando potevo firmare il contratto. Ormai sono quasi due mesi che...» Non mi lasciò finire la frase. Partì alla carica alzando la voce e dandomi dell’ingrato. I suoi occhi erano spalancati e carichi di rabbia. «Smettila di rompere con questa storia! Se non ti va bene come stanno le cose, smamma. Fuori dalla porta ho la fila di persone che vorrebbero il tuo posto», gridò. Avrei voluto rispondergli a tono, ma non lo feci. Mi mostrai remissivo e chinai il capo. «Non volevo offenderla», dissi prima di uscire per il solito giro nel parcheggio. Un'idea malsana mi girò per la testa tutta la notte. Smontai dal turno, andai a casa e mi feci una doccia, ma quell'idea non mi abbandonò: Maurizio la doveva pagare. Mentre l'acqua calda mi accarezzava la pelle, presi la mia decisione. Indossai dei vestiti puliti e andai a casa di mio fratello. Aspettai che Lili, mia cognata, uscisse a fare la spesa, poi guardai Marco. «Facciamolo», mi limitai a dire. Sul suo volto apparve un sorriso. «Non te ne pentirai», rispose. Mio fratello aveva già pensato a tutto: per non destare sospetti, la settimana successiva telefonai in albergo dicendo che avevo subìto un brutto k.o durante un allenamento e di conseguenza dovevo stare a riposo. Maurizio s’incazzò, ma ormai non me ne importava più nulla. Il diciotto luglio, giorno previsto per la compravendita in contanti del ristorante, passai a prendere Marco alle ventuno e trenta precise a bordo di una Skoda che avevo rubato poco prima vicino alla stazione. Mio fratello aveva il volto tirato e fumava nervosamente. Faceva un caldo soffocante e sembrava che l'asfalto rilasciasse tutto il calore accumulato durante il giorno. «Fatti da parte, guido io...» mi ordinò. Quando si fu sistemato al volante sollevò la maglietta e mi passò una Beretta 90 S. «Non avevamo parlato di pistole», dissi guardando l'arma. «Ah no? E come pensi di spaventarlo quello, con il passamontagna? Stai tranquillo fratellino, è una scacciacani, fa solo un gran rumore e basta. Sembra vera, no?», mi rispose recitando la parte del pistolero esperto. Gli lanciai uno sguardo perplesso. «Serve solo a fargli paura... vedrai, andrà tutto liscio». Non aspettò nemmeno una risposta da parte mia, mise in moto e partimmo.

Stefano Cosmo
Stefano Cosmo


La scacciacani
è una pistola vera
L’ho ucciso


Maurizio abitava dalle parti di piazza Mercato, in una zona tranquilla fatta di condomìni a due piani, dove risiedevano principalmente coppie di anziani e vedove. In giro c’era solo un signore con un vecchio bastardino al guinzaglio. C’era ancora qualche sfumatura di luce sul cielo sopra Marghera, nonostante le pesanti nuvole grigie che provenivano da occidente. Parcheggiammo l’auto in una stradina laterale dalla quale potevamo controllare la casa senza dare nell’occhio e aspettammo. La nostra vittima uscì due ore più tardi, con mezzo sigaro spento infilato tra le labbra. Disse qualcosa alla moglie che si era affacciata dal balcone e poco dopo entrò in un garage di lamiera accanto alla casa. Vi rimase per un tempo che mi sembrò infinito, poi uscì. Un tuono ruggì nel cielo, seguito da grosse gocce di pioggia che cominciarono a cadere dapprima lente e rade, poi sempre più frequenti, colorando l’asfalto di sfumature argentee. «Ci mancava solo la pioggia» commentò mio fratello. Maurizio tirò fuori dal garage il suo catorcio, scese e andò a chiudere il cancello, lasciando la portiera aperta. «Vai» mi disse Marco, tenendo lo sguardo incollato sulla nostra vittima. Il cuore cominciò a battermi all’impazzata. Uscii dall’auto e avvicinai la mano alla scacciacani nascosta in tasca. Il bastardo stava chiudendo il cancello del garage dandomi le spalle. La pioggia mi sferzava il viso e il temporale copriva ogni rumore. Per qualche istante ebbi la sensazione che tutto si muovesse lentamente. Mi guardai attorno: la strada era deserta. Mi calai il passamontagna e rividi le mazzette di banconote lanciate da Maurizio sopra il tavolo. Mi parve di sentire ancora una volta la sua voce che mi dava dell’ingrato. Estrassi l’arma e tutto diventò veloce come i lampi che guizzavano tra le nuvole. Feci uno scatto e lo raggiunsi. Lo afferrai, lo girai e lo colpii al volto con il calcio della pistola. Cadde in ginocchio a qualche metro da me, con un tortuoso rivolo di sangue a solcargli la fronte. Lo rialzai e gliene sferrai un
mansueti. Di solito. «Dammi i soldi!» ordinai. Non fece nulla, rimase a fissarmi immobile. «Dammi i soldi!» ripetei puntandogli la pistola in mezzo agli occhi. Il vecchio continuava a guardarmi con occhi spenti all’interno dei quali sembravano alternarsi come luci di Natale panico, terrore e collera. Stavo per colpirlo ancora una volta quando vidi una vecchia sacca sgualcita appoggiata sui sedili posteriori. Lo spinsi di lato e l’afferrai. Lo minacciai tenendolo sotto tiro con la scacciacani. Per un istante ebbi la sensazione che mi avesse riconosciuto, che stesse provando a dirmi di lasciar perdere, di non farlo. Me la scrollai di dosso e corsi via dimenticando la regola numero uno del rapinatore con il malloppo in mano: mai dare le spalle finché non si è a distanza di sicurezza. Il vecchio si alzò e dalla tasca dei pantaloni estrasse una rivoltella. Sparò due volte, mancandomi per un soffio: il primo proiettile mi sibilò sopra la spalla, il secondo infranse il lunotto posteriore di un’auto parcheggiata. Non so perché lo feci, ma mi voltai e tirai il grilletto. Sentii il botto vibrarmi dentro la cassa toracica e un istante dopo vidi Maurizio cadere a terra in una pozza di liquido scuro. Mi bloccai senza realizzare l’accaduto. Stavo per mollare la sacca e correre via quando mio fratello sbucò da dietro l’angolo. Ci guardammo. Per un attimo tutto parve fermo. «Via, via!» urlò strattonandomi. Salimmo in macchina e ci allontanammo nella notte facendo stridere le gomme contro l’asfalto. «Mi hai dato una pistola vera!» gridai. Mi voltai e, sbiadita dalla pioggia che scivolava lungo il lunotto, vidi la sagoma del vecchio faccendiere a terra, immobile. Qualche finestra si illuminò, alcuni vicini si affacciarono, ma noi eravamo già lontani. Ci fermammo in un paesino di campagna appena fuori Padova. Avevo il respiro accelerato e gli occhi sbarrati dall’adrenalina. Mi voltai di scatto verso mio fratello e lo colpii al volto, lo tirai fuori dall’auto e lo colpii ancora. Attorno a noi c’erano solo una notte pallida e un cielo coperto di nuvole scure. Scoppiai a piangere. «L’ho ammazzato... l’ho ammazzato...» ripetevo. Mio fratello si alzò e diede un calcio alla ruota della Skoda. «Merda!». Abbandonai la testa tra le mani e continuai a piangere. Era come se avessi avuto il cervello imbottito di ovatta; non riuscivo a pensare, mi sentivo svuotato di qualsiasi ricordo o sensazione che non fosse panico. «Dobbiamo far sparire la pistola, farla a pezzi e lasciarla lungo la strada» disse Marco dopo qualche minuto. Lo afferrai per il collo e gliela puntai contro. «Mi avevi detto che era finta» ringhiai a pochi centimetri dal suo volto. «E poi? Che faremo? Scapperemo per sempre?» rispose. La sacca con i soldi era sul sedile posteriore, abbandonata. Rimanemmo lì per una buona mezz’ora; mio fratello fumò mezzo pacchetto di sigarette e alla fine decise di prendere in mano la situazione. «Torniamo a casa e facciamo finta di niente. Se scappiamo subito gli sbirri non ci metteranno molto a collegare il fatto che lavoravi in albergo con la rapina» disse fingendosi calmo. Disperato com’ero, lo ascoltai. Non potevo far altro. Andammo a nascondere i soldi in un casolare abbandonato dalle parti di Dolo, tenendoci un paio di mazzette. Smontammo la pistola e gettammo i pezzi lungo il tragitto. Pensavo che l’avremmo fatta franca. Mi sbagliavo. Due settimane dopo i carabinieri si presentarono a casa di Marco con un mandato di perquisizione. Trovarono una mazzetta nascosta dentro il muro. Maurizio era stato così furbo da fotocopiarle una a una, fregandoci. Un vicino mi telefonò dicendo che i carabinieri stavano arrestando mio fratello. Quando arrivai lo avevano già ammanettato. Ebbe giusto il tempo di sussurrarmi alcune parole prima che lo portassero via. Le stesse che mi perseguitano ogni notte. «Stai zitto e prenditi cura di Lili». Marco si addossò tutte le colpe. Venni a sapere che, poco prima della rapina, si era fatto un mix di coca e calmanti. Forse fu quella la causa per cui scambiò la pistola vera che voleva tenere lui con la scacciacani che voleva dare a me, o forse era stato il destino che aveva deciso di mettere la parola fine alle nostre vite da criminali in modo originale. Ai giornali le autorità dichiararono che presto sarebbero arrivati anche al complice, ma non fu così. Nonostante le promesse di clemenza e sconti di pena, mio fratello non disse una parola, regalandomi la libertà e una montagna di sensi di colpa. Durante uno dei colloqui in carcere mi fece giurare su nostra madre che mai avrei detto a Lili che ero coinvolto in quella rapina: orgogliosa com’era, non avrebbe accettato un aiuto da parte mia. E così feci. Un mese dopo l’arresto, mia cognata scoprì di essere incinta. L’uomo che mi aveva donato una seconda possibilità non sarebbe potuto starle vicino durante la gravidanza, né tenerle la mano durante il parto o aiutarla a crescere quella creatura che, al contrario di me, non aveva nessuna colpa. Per mesi non ebbi nemmeno il coraggio di presentarmi ai colloqui. Per Lili ero rimasto l’eroe, il campione tutto d’un pezzo, quello che l’aiutava mentre il marito stava in galera. Quello muscoloso e tatuato. Ma, come vi ho già detto, non sono un eroe. Sono un uomo che ha capito che non bisogna mai fare i conti con il passato, se non si è pronti a pagare. L’arbitro è arrivato a contare fino a otto. Penso allo sparo, a mio fratello in carcere, a Lili che mangia solo pasta per arrivare a fine mese. Inspiro forte e mi alzo in piedi. «Ce la fai a continuare?» mi domanda l’arbitro. Annuisco e tiro su i guantoni. Testa rasata riparte alla carica sicuro di mettermi giù stavolta. Decido di giocarmi il tutto per tutto: chiudo la distanza e lascio partire un montante. S’infila sotto la guardia del mio avversario. Mento pieno. Vorrei fare come Muhammad Ali quando ha messo ko Sonny Liston, vorrei urlargli di alzarsi in piedi, ma non ce la faccio. Mi basta pensare al sorriso di Lili. E che tutto è finito.

 

Fine

Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale.

 

 

(*)

Stefano Cosmo è nato e vive a Marghera. Assieme a Massimo Carlotto, Piergiorgio Pulixi, Ciro Auriemma, Renato Troffa e Michele Ledda fa parte del Collettivo Sabot, gruppo di scrittori fondato dallo stesso Carlotto. Stefano è autore assieme a Piergiorgio Pulixi e Ciro Auriemma di "Padre Nostro", edito da Rizzoli e finalista al premio Nebbia Gialla 2015.

I racconti del Collettivo Sabot sono stati pubblicati da quotidiani nazionali, riviste e blog. Maggiori informazioni sui romanzi e sui componenti del Collettivo le potete trovare nella loro pagina Facebook Collettivo Sabot. "Nella Gabbia" è un progetto musicale e letterario realizzato in collaborazione con il bluesman Mr.Wob Andrea Facchin, dove blues e noir si incontrano in un reading per raccontare le avventure di Moreno Zanon, alias “il Barba”. Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale.

Il 27 agosto alle 21.30 Cosmo e Facchin si esibiranno a Forte Marghera con la terza avventura del Barba. Ingresso gratuito.

 

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