Le lingue della fabbrica del mondo: voci che raccontano Marghera

VENEZIA. Il titolo viene da una vecchia canzone del cantautore veneziano Alberto D’Amico, “Ti sa miga”, dove si cerca di descrivere Marghera, «quel logo dove el mar ghe gera, tanto tempo fa pensa: xe cascà un
pianeta in mar». Il pretesto è stato il centenario di Porto Marghera. Ma quello che è venuto fuori è molto diverso: è “Il pianeta in mare” di Andrea Segre, cosceneggiato con Gianfranco Bettin che di Marghera è non solo il presidente della Municipalità, ma anche cantore e testimone.
Film che è a Venezia 76, nella sezione Fuori concorso, un documentario a fianco di Salvatores, Archibugi, Roger Waters, Tim Robbins e Costa-Gavras.
«Siamo felicissimi» commenta Segre, non nascondendo la sua piena soddisfazione. «Mica un Evento speciale, ma la selezione ufficiale». «La cosa più sorprendente è stata che, in questi anni di lavorazione, a chiunque io dicessi che stavo lavorando a un film su Marghera, la risposta era sempre: “Ah, perché esiste ancora Marghera?”. Di qui la necessità di andar oltre gli stereotipi, i Moloch dei pregiudizi e del dolore che fanno sì che non si voglia più parlare di lavoro operaio, di civiltà industriale. Io invece ho voluto avere del tempo per ragionare sui luoghi e le persone, lasciando che la realtà ci portasse a capire Marghera, senza interrogarla direttamente».
Come una sorta di Virgilio, Gianfranco Bettin ha guidato Segre alla conoscenza: «Quando gli ho detto che non ero mai entrato al Petrolchimico come altrove, mi ha detto che bisognava dar spazio alla curiosità». Per Bettin è la prima partecipazione diretta a un film.
«Daniele Gaglianone ha tratto un film dal mio romanzo “Nemmeno il destino”, ma era stata una scelta autonoma, e riuscita tanto che aveva vinto il festival di Rotterdam. Ho lavorato un anno e mezzo con Carlo Mazzacurati, su Marghera e gli appalti nella cantieristica. Poi Carlo è mancato e non se n’è fatto più nulla. Per questo “Un pianeta in mare” ha molti valori per me».
Il primo fotogramma
E per lui la domanda quasi inevitabile riguarda il rapporto con Venezia: è più attuale parlare di Marghera, che di Venezia?
«Non se ne può parlare separandole, perché sono indistricabili, come mostra bene il primo fotogramma, una gondola che attraversa lo skyline di Marghera, ripresa dal canale della Giudecca, a mostrare la vicinanza e l’alterità delle due dimensioni. L’idea del film è stata quella di entrare per la prima volta dentro Porto Marghera, mostrando come si lavora alla Fincanteri o al Cracking, che lingue si parlano in quella fabbrica del mondo che è e resta sempre Marghera, anche a distanza di 50, 100 anni dalla Marghera storica».
Una parola che pesa In questo senso, più globale, si spiega anche il significato più sottile e profondo del film. Marghera resta un pianeta, dove le materie prime e i prodotti vanno e vengono da tutto il mondo. Ma anche dove lavorano maestranze provenienti da ogni dove.

«Nella Fincantieri ci sono 63 nazionalità diverse che saldano a mano delle navi enormi. Altro che, se c’è Marghera. È che “operaio” è una vocabolo che pesa, ci sono delle parole e delle situazioni legate a Marghera che sembrano impedirne la conoscenza. Ho voluto fare il film» aggiunge Segre «per cercare non opinioni, ma vite vissute, vere. Ho fatto un viaggio di stupore dentro una realtà dimenticata, riportando dentro il Petrolchimico e la Vinyls operai in pensione o in cassa integrazione che ne erano usciti anni fa, senza mai avere il coraggio di tornarvi».
La cuoca viola
Pur non intervistando mai direttamente, ma rubando il tempo con la complicità dei protagonisti, Segre segue alcuni personaggi nella loro quotidianità, senza voce narrante, ma con i rumori, i suoni, quasi gli odori, di Marghera: quattro saldatori stranieri – un bengalese, un senegalese e due rumeni – e due italiani; due operai del Petrolchimico, il più giovane e un altro più maturo, due ragazzi ultratecnologici con base al Vega e connessioni continue col mondo intero dove si spostano per la loro società, Alpenite, e soprattutto la cuoca Viola dell’ultima trattoria vecchio stile rimasta, “Alla dogana”, con i suoi camionisti che parlano dei cambiamenti politici dell’Europa da vecchi navigatori.
Il rischio Marghera non è morta: «Ma ha anche un rischio forte, che venga intaccata dalla monocultura turistica se le grandi navi dovessero prenderne possesso. Giustamente escluse da Venezia, non dovrebbero però intaccare questo patrimonio che resiste e si modifica di continuo» spiega Bettin. «“Il pianeta in
mare”» conclude il regista «risponde a più significati, da un lato chiarire e far conoscere questo luogo fantascientifico, metafisico, dall’altro introdurre il tema della globalizzazione sotto casa».
Il film, che uscirà nelle sale il 26 settembre, è prodotto da Zalab Film, la società del regista, con Rai Cinema, Istituto Luce Cinecittà, Banca Etica e il sostegno del Mibact, ma non della Regione Veneto: «Purtroppo siamo stati sfortunati perché caduti nell’anno sbagliato, proprio quello in cui avevano azzerato la film commission», sorride Segre.
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