I sessant'anni anni di Simonini detto Lupo, il bomber discolo

Gol e promozioni nell’altalena tra A e B, compreso il  Venezia: «Negli anni Novanta segnai 6 gol e colpii 10 pali, incredibile. Ma ancora adesso se passeggio tra le calli qualcuno mi saluta. Cone me solo Inzaghi»
 
«Sfortunata è il termine più corretto. Segnai 6 gol e colpii 10 pali, incredibile. Ma ancora adesso se passeggio tra le calli qualcuno mi urla: “ciao Lupo!”».
 
Perché?
 
«L’estate del ritiro con il Venezia tornavo dal viaggio di nozze e spesso nei momenti di relax stavo al telefono con mia moglie. Un giornalista mi vedeva appartato e mi soprannominò “Lupo solitario”. Da lì mi hanno sempre chiamato così, anche se non rispecchia il mio carattere». 
 
VENEZIA. Sessanta. Che sono meno dei gol che ha segnato in carriera e molti meno di quelli che si sente addosso. Eppure Fulvio Simonini festeggia la cifra tonda con il sorriso e l’aria scanzonata che l’hanno accompagnato per tutta la carriera. «Beh, 60 anni sono un bel traguardo», le parole dell’ex bomber di Padova e Venezia «il bilancio è positivo, ho fatto il lavoro che ho sempre amato, ho continuato a farlo in altre vesti e vorrei raggiungere ancora nuovi traguardi».
 
Il primo ricordo con un pallone tra i piedi? 
 
«Avevo quattro anni, i miei genitori permettevano a mio fratello maggiore di andare a giocare soltanto se si fosse portato anche me. Uscivamo insieme, ma poi mi parcheggiava a bordo campo e io restavo ore a calciare una pallina minuscola conto il muretto. Credo di aver passato l’infanzia più all’oratorio che a casa, anche perché ho rotto tanti vetri e i calci che davo al pallone poi li prendevo sul sedere da mio padre» .
 
Siamo nel Franciacorta. Quando si accorgono che quel bambino forse era meglio farlo giocare in campo? 
 
«Presto. Da piccolo ho sempre giocato sotto età. All’epoca non c’erano tanti osservatori, ma durante un torneo Giovanissimi vengono a vedermi e finisco nei radar dei grandi club. Erano interessate Juve, Brescia, Atalanta, io scelgo la Dea perché mi ha sempre affascinato e continua a farlo».
 
Come mai? 
 
«Perché anche a quei tempi aveva una grande capacità di lanciare i giovani, penso a Cabrini o Fanna. Io, però, mentre ero sul punto di esordire in prima squadra mi faccio male e sto fermo un anno. Poi parto per il militare e accuso il colpo del lungo stop, sono costretto a ripartire dalla C/2, mi faccio le ossa e riguadagno la chiamata dell’Atalanta a 24 anni».
 
Ed è la sua stagione più prestigiosa, 85/86, nella Serie A più forte di sempre. 
 
«E non era mica facile arrivarci. Me la cavo bene, segno 3 gol, due all’Inter e uno al Milan, sfioriamo l’ingresso in Coppa Uefa ma a fine stagione decidono di cedermi in Serie B a Cesena».
 
Da lì nasce la sua etichetta di bomber di categoria. Le ha dato fastidio? 
 
«No, ho sempre preferito giocare tanto in B che poco in A. E se capivo che non ero gradito e volevano cedermi me ne andavo subito. Volevo giocare dove mi amavano e fortunatamente mi hanno amato quasi dappertutto. A Reggio Calabria mi hanno pure dedicato un club».
 
Anche se il feeling maggiore c’è stato con Padova...
 
«Ancora adesso c’è gente che si ferma per strada per ricordami le mie partite in biancoscudato. Arrivo nel 1987 e passo due anni meravigliosi. Il ricordo più nitido è quello dell’Appiani. Avevamo una buona squadra ma con tanti giovani, eppure l’entusiasmo che si respirava dentro all’Appiani ci spinse a un passo dalla Serie A. Potevamo farcela proprio sull’onda che sapeva trasmettere solo quello stadio. E quando andavamo bene c’erano più di 20 mila persone sugli spalti, uno spettacolo» 
 
All’inizio degli anni ’90 si sposta anche a Venezia ma è una parentesi in chiaroscuro. 
 
«Sfortunata è il termine più corretto. Segnai 6 gol e colpii 10 pali, incredibile. Ma ancora adesso se passeggio tra le calli qualcuno mi urla: “ciao Lupo!”».
 
Perché?
 
«L’estate del ritiro con il Venezia tornavo dal viaggio di nozze e spesso nei momenti di relax stavo al telefono con mia moglie. Un giornalista mi vedeva appartato e mi soprannominò “Lupo solitario”. Da lì mi hanno sempre chiamato così, anche se non rispecchia il mio carattere». 
 
Come mai la scelta di restare a vivere a Padova?
 
«Perché ho sposato una padovana. Quei due anni mi hanno permesso di conoscere tanta gente con la quale ho stretto un legame che dura tuttora e mi consente di vivere in questa splendida città. Mia figlia Clara è padovana e adesso lavora anche nel calcio».
 
Le chiede qualche consiglio?
 
«Macché, è nell’area marketing del Bologna e io di comunicazione non ne so niente».
 
Per questo non aveva un gran rapporto con i giornalisti? 
 
«Attenzione, non è vero che non avessi un buon rapporto. Solo che non mi facevo problemi a mandarli a quel paese. Il 99 per cento dei calciatori dice solo frasi banali. Io facevo parte di quell’uno per cento senza peli sulla lingua».
 
È un aspetto che ha ostacolato la sua carriera? 
 
«No, perché ho sempre difeso compagni, squadra e allenatore. E anche se litigavo con i giornalisti mi volevano bene. L’unico aspetto che forse ha frenato la mia carriera è che pensavo anche a divertirmi. Fossi stato meno discolo avrei raggiunto traguardi più alti. Ma non ho rimpianti».
 
Il compagno più forte?
 
«Roberto Donadoni. Un fenomeno di tecnica e umiltà. Un personaggio che centra poco con il mondo del pallone» .
 
Il suo gol più bello? 
 
«All’Appiani contro l’Ancona. Un tiro a giro da limite dell’area, che adesso hanno ribattezzato “alla Del Piero”».
 
Chi è il Simonini del calcio moderno? 
 
«Nessuno. L’ultimo è stato Inzaghi che, come me, viveva per il gol e stazionava negli ultimi 25 metri. Ora il calcio è cambiato e a un attaccante si chiede corsa a tutto campo».
 
Traguardi futuri?
 
«Vorrei nuove sfide nel calcio. I due anni da responsabile del settore giovanile del Padova sono stati splendidi ma si sono interrotti sul più bello. Per la lavorare con cura in un vivaio ne servono almeno quattro o cinque.
Aspetto l’opportunità giusta». 
 
***
 
LA SCHEDA
 
Da osservatore Juve a candidato consigliere nella città del Santo
 
Fulvio Simonini nasce a Passirano (Brescia), il 29 marzo 1961. Esordisce nel vivaio dell’Atalanta, fa la gavetta traC/2 e C/1 con Derthona e Virescit. Nel 1986 esordisce in Serie A proprio con la Dea, poi scende di nuovo in B a Cesena, contribuendo alla promozione con 11 reti. Quindi è a Padova in un biennio molto positivo in cui colleziona 70 presenze e 23 gol. Segue il ritorno in A, con l’Udinese, dove resta però solo metà stagione prima di tornare in B nella Reggina.
 
Due anni sullo stretto e sbarca a Venezia: 40 presenze e sei reti. Quindi va a Piacenza dove conquista un’altra promozione in Serie A. Chiude la carriera tra i dilettanti con Virtus Chianciano e Trento. Appese le scarpe al chiodo, nel 1998 si stabilisce a Padova dove ha messo su famiglia e avviato un’attività immobiliare. Dopo una parentesi da osservatore della Juventus avvia una lunga collaborazione con la Sacra Famiglia, dal 2017 al 2019 è responsabile del settore giovanile del Padova. Sempre nel 2017 si candida, senza essere eletto, a consigliere nella Lista Giordani.
 
© RIPRODUZIONE RISERVATA 

Riproduzione riservata © La Nuova Venezia