Colto e gentile. In memoria di Enrico Tantucci

L’ultimo commosso e commuovente saluto al giornalista della Nuova Venezia nella chiesa dei Santi Apostoli. La struggente orazione funebre laica del figlio e i tanti ricordi della nostra grande famiglia

«La gentilezza è una caratteristica che Enrico ha avuto sempre nel suo modo di porsi nei confronti degli altri e della vita. Cerchiamo di essere tutti più gentili nella nostra vita». Così don Paolo Bellio, il parroco della chiesa di Santi Apostoli, affollata per l'ultimo saluto al giornalista Enrico Tantucci. Il nostro Enrico, a La Nuova di Venezia e Mestre sin dal giorno del primo numero, nel 1984. Uomo di cultura, che ha lasciato un segno nella professione per il rigore nella ricerca delle notizie e per la sua grande capacità di scrittura: informata, semplice, mai banale.

Il 22 ottobre ha avuto luogo l’ultimo saluto a Tantucci, venuto a mancare a 70 anni il 18 ottobre. I funerali sono stati celebrati nella chiesa dei Santi Apostoli di Venezia. Ecco di seguito la lettera aperta letta dal figlio Vittorio e i ricordi della nostra redazione, letti da Alberto Vitucci e Roberta De Rossi

La lettera del figlio

Sfoglio il giornale

Questo per me è un suono di casa. L'ho sentito per la maggior parte della mia vita, da quando sono nato. Un suono che non poteva mai mancare, fossimo a Venezia, all'estero, in montagna. Il suono della carta di giornale che viene sfogliata, pagina dopo pagina, dava l’inizio ad ogni mattina. Spesso era proprio lo schioccare della carta di giornale che seguivo quando ti cercavo per casa da bambino.

Ciao papà, eccoci qui.

Molte delle persone in questa chiesa ti hanno conosciuto come un giornalista di grande cultura, per come hai raccontato Venezia per 40 anni. Tu, romano di nascita, ma veneziano di adozione. Anche se, lasciatelo dire, il dialetto, beh quello non faceva proprio per te. Hai scritto giorno dopo giorno di questa città, dei suoi sindaci, delle sue biennali, dei suoi scandali, le sue opere… Questa però è un’altra storia, è quella vista dagli occhi di un figlio che è cresciuto accanto a te, proprio nell’arco di questi 40 anni.

Quando un padre se ne va, viene da pensare alle caratteristiche che ne definivano la personalità. Il modo di essere, il modo di comportarsi con gli altri. E tu in questo non fai eccezione. Ci sono tutta una serie di tratti che sono veramente i tuoi, ma 4 in particolare mi sono venuti mente tornando a casa, sabato mattina, dopo la tua morte.

Beh, sei sempre stato una persona estremamente saggia. Non so come facevi, ma tutte le volte che dovevo fare una scelta difficile, riuscivi sempre a dire la cosa giusta. Non era solo quello che dicevi, ma come lo dicevi. Era il modo in cui mi facevi sempre sentire a mio agio di fronte alle difficoltà della vita. In questo eri un fuoriclasse. Taravi quello che dicevi sulla personalità del tuo interlocutore – in questo caso tuo figlio – comprendendolo profondamente. Dopo aver parlato con te tutto sembrava più chiaro, più facile. Avevo la consapevolezza che in qualche modo tutto sarebbe andato bene. In questo eri molto saggio, non sapevi solo parlare, sapevi cogliere cosa fosse giusto dire, che è una cosa molto più difficile.

Un altro tratto tuo, beh, disordinato. Mi dispiace dirtelo, ma eri proprio disordinato. Quando i tuoi colleghi mi hanno chiesto di condividere alcune foto significative, ne avrei mandata volentieri una in cui eri alla tua postazione alla Nuova, dove eri venuto anche molto bene, davi l'idea di essere molto immerso nel tuo lavoro. Ma la postazione e la quantità di carte e documenti uno sopra l’altro mi hanno fatto pensare, vabbè vah, gliene mando un’altra… Il paradosso, però, è che in quella confusione apparente tu riuscivi a trovare tutto e di questo ti devo dare atto. Le cose importanti venivano sempre fuori da qualche cassetto misterioso o sotto qualche scartoffia, sempre. Delle cose importanti, non te ne sei mai dimenticato. E del disordine, chi se ne importa…

Il terzo tratto è la resilienza. Non hai mollato mai, non mollavi mai. Da quando facevamo le gare in bicicletta quando ero un bambino al Lido e tenevi duro fino a San Nicoletto, alle partitelle di calcio in montagna. Una volta mi ricordo che Manfredonia, un ex calciatore anche della Juventus, capitò nello stesso campetto dove stavamo giocando. Era lì con alcuni amici e i ragazzi delle giovanili della Roma e ci proposero di fare una partitella. Con Manfredonia, ricordo, c'era una specie di energumeno, un altro ex giocatore che non conoscevo, ma, enorme. Tu quella partita la giocasti da difensore centrale e desti tutto, come se fosse stata la finale di un Mondiale. Ricordo molto bene quando verso la fine questo terzino gigantesco stava puntando la porta e tu decidesti – senza indugio – di frapporti fra lui e l’area per bloccarlo. E lui ti arò come un trattore.

Quello ti costò una costola rotta, ma non fu un grosso problema per te, quel gol non lo subimmo. Sì perché tu il dolore lo hai sempre saputo sopportare in maniera incredibile, con resilienza, appunto.

Il dolore, quello che ti ha colpito in una maniera disumana negli ultimi cinque anni, ma soprattutto nell’ultimo della tua vita. E che hai sempre arginato in ogni modo. Fintanto che hai potuto usare le mani per scrivere hai continuato a farlo. Fintanto che hai avuto la forza di parlare, hai continuato a scherzare, sorridendo e rassicurandoci fino all’ultimo.

Ecco questo mi porta al tuo ultimo tratto.

Eri buono, eroicamente buono. Per la pazienza che hai avuto con me, con mia mamma, con cui condividevi una simbiosi affettiva e culturale, e che hai sempre sostenuto, in ogni circostanza. E per il fatto che nell'ultimo anno, quando ti hanno comunicato che sarebbero stati mesi molto difficili per te, tu ti sei dato una chiara missione. Tu sapevi che avresti sofferto, ma dovevi far soffrire il meno possibile le persone che ti stavano vicine.

Questa era la missione.

C’è una foto che guardo spesso, scattata al Lido il giorno dopo di quel referto TAC. E tu in questa foto sei fantastico perché sei così posa: sei sorridente e, pur essendo conscio di quello che ti aspetta, trasmetti un entusiasmo e un amore per la vita a tutti noi, quasi per dirci, state tranquilli.

E così è stato. Perché da figlio, non ti ho mai visto piangere, mai lamentarti, non ti ho mai visto abbatterti. Duri i banchi mi dicevi. E lo so che non era facile, ché soffrivi tantissimo. Ma tu hai messo noi davanti al dolore. Nel sorridere e far ridere la tua nipotina Eugenia che ha avuto la fortuna di conoscerti per sei mesi della sua vita, quasi sette.

Io sono un linguista. Mi occupo di una branca della linguistica che si chiama pragmatica, che studia il linguaggio, come un sistema di azioni. Quando parliamo compiamo sempre delle azioni. Parlando realizziamo richieste, ordini, facciamo promesse, diamo consigli, riportiamo delle informazioni (informare era un atto linguistico che hai amato in modo viscerale).

Ecco, l’ultima volta che abbiamo parlato, venerdì sera mi hai detto: Vittorio, mi dispiace. Scusa di tutto. Ti sei scusato per tutte le difficoltà che questa tua condizione, secondo te, mi aveva creato. Il tuo ultimo atto linguistico è stato chiedere scusa, per esserti ammalato.

Non male eh.

Questo è l’emblema di ciò che eri. Una persona che pensava sempre e comunque prima agli altri. Una persona eroicamente buona, fino all’ultimo.

Oggi viviamo in un mondo dove essere buoni, per davvero, sembra un po’ una cosa demodé. Sembra che vada più di moda essere cattivi. La mancanza di empatia per gli altri, l’essere arrabbiati con gli altri, sembrano sempre più la chiave del consenso politico per esempio. Beh, a me piace il tuo essere old style, il tuo essere pacato, gentile e premuroso. Mi piace credere che si possa essere ancora come eri tu. Quindi sai che c’è, anch’io ho una mia piccola missione (per quanto difficile).

Provare ad essere indipendente e buono quanto lo sei stato tu. Impossibile, lo so, ma provare non costa nulla.

Grazie babbo, rimarrai sempre una luce gentile di ragione e cultura”.

Il ricordo della redazione

La nostra piccola redazione era una famiglia di fatto. Noi eravamo sempre noi, rimasti in cinque, insieme da decenni. La vita professionale e la nostre vite personali si sono andate intrecciando, sempre. E il dolore per essere qui oggi a salutarti, Enrico, è grande anche per questo.

Era la nostra vita, e aveva una dinamica tutta sua: notizie sul Comune e la città, la Fenice che bruciava, le inchieste e i grandi fatti di nera, il Mose e la cultura. La “presa” del campanile di San Marco e la cronaca di ogni giorno. Compresa la nostra.

Ci sentivamo speciali, nel nostro essere periferia ma cuore dell’impero. Non potevano fare a meno di noi, delle notizie di Venezia. E tu sei stato uno dei protagonisti di questa narrazione che si diramava e alimentava dalla laguna in ogni dove, dalla cultura alla politica.

Le tue anticipazioni, i tuoi inserti ad ogni Biennale, vero e proprio testo sacro, dove cerchiavamo in rosso i padiglioni che tu indicavi “assolutamente da vedere”, i film consigliati. Pagine che vedevi in mano a colleghi di tutt’Italia camminando per i Giardini della Biennale o attorno al tappeto rosso della Mostra del Cinema.

Enrico, Alberto, Manuela, Giorgio, Roberta. E poi Anna e i colleghi della cultura a Padova, un gruppo di collaboratori cresciuti alla nostra, alla tua scuola.

Una famiglia allargata… tutto il giorno insieme. Bisticci che talvolta scoppiavano su “chi doveva scrivere cosa” fino alle risate per una battuta fulminante e per i tuoi raffinati giochi di parole.

Quando ti impuntavi non ti fermava nessuno. Ti arrabbiavi per un titolo sbagliato, una notizia che secondo te era stata sottovalutata: le tue mail al capo di turno erano civili nei toni ,ma non ne lasciavano passare una.

Tu così puntuale, preciso, curioso, colto, informato su quello che accadeva a Venezia, sulla bellezza dell’arte e sul dietro le quinte delle battaglie politiche per le nomine nelle istituzioni.

Grandi temi e la quotidianità: storie di quartiere, di comunità cittadine che si mobilitavano per la sanità e per l’ambiente. Per noi era anche arrivare la mattina e trovare appesa con lo scotch sull’armadio una delle tue poesie, dove ogni cognome diventava un gioco di parole, la critica arguta si faceva rima e ironia irriverente. Risata assicurata. Perché eri riservato, ma il guizzo negli occhi si accendeva per uno scoop come per una battuta.

Tu che scrivevi e telefonavi, telefonavi e scrivevi, circondato da quella montagna di minuscoli block notes che riempivi di informazioni, notizie, scritte con una scrittura da ricetta medica che capivi solo tu, che accumulavi sulla tua scrivania, su quella accanto e che tracimavano a terra....fino a quando le donne della redazione ti ordinavano di farli sparire se no li avrebbero dati allo spazzino. Quadernini caotici e preziosi dai quali cavavi notizie scritte battendo frenetico con due sole dita sulla tastiera del tuo computer per farne pezzi dalla scrittura pulita e semplice, mai banale.

Generoso eri nel condividere la tua ricchissima agenda telefonica: una vecchia Moleskine dalle pagine consumate, zeppe di numeri riservati frutto di una vita di lavoro e di contatti.

Un collega dalla grande sapienza, autore di manuali di analisi logica - come il suo papà - che si faceva torturare con le nostre quotidiane banalissime domande: con quante doppie si scrive colluttazione? Avrebbe potuto partire o sarebbe potuto partire? Beneficenza va con o senza la i….

Un collega generoso, nell’aiutare i giovani che si affacciavano alla redazione con il desiderio di diventare giornalisti. Con rispetto ma anche con piglio da professore di liceo. E i giovani imparavano.

Scrivere, scrivere l’hai fatto fino alla fine. E ti sei preoccupato dei destini del giornale anche dopo la pensione: chi la compra? Chi fanno direttore? Fino a quando, qualche mese fa – quando la malattia si è fatta sempre più dura – ci hai scritto che volevi dedicarti solo alla gioia di veder crescere la tua nipotina Eugenia.

«Colto e gentile», ha scritto di te Alberto nel suo affettuoso ricordo, dando corpo al pensiero di tutti noi, «un giornalista bravo e tenace, innamorato del suo lavoro: pezzi carichi di informazioni scritti benissimo: intuizioni che arrivavano spesso prima di tutti gli altri. Ironia e studi classici dietro la prosa che si gustava riga per riga (…..) Una vita passata insieme in redazione. L’ironia sempre presente. Le poesie e i giochi di parole fulminanti. Non era un estroverso, Enrico, parlava poco della sua vita privata. Se non quando gli chiedevamo del suo adorato figlio Vittorio. Era un cronista vecchio stampo: si cercava le notizie, senza fermarsi alle versioni ufficiali, se partiva convinto non lo fermava più nessuno».

Ti abbiamo voluto bene e ci mancherai davvero.

Ciao Enrico, riposa in pace.

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