Con il burqa per le vie della città. "Così conciate stiano a casa loro"
L’esperimento. Una cronista ha indossato il copricapo delle musulmane più osservanti e si è mischiata ai passanti del centro di Mestre

La cronista con il burqa per Mestre
MESTRE.
Una cosa va detta prima di tutto: i mestrini non sono abituati a vedere una musulmana con il burqa. La maggior parte lo confonde con il chador, solo pochi sanno davvero che cosa sia, come si porti, le rare persone che hanno lavorato e studiato all’estero o che per i motivi più disparati sono venute a contatto con integralisti islamici. E questo giustifica sicuramente lo sguardo stupito e le occhiate strane che ti tira la gente quando cammini per la strada con indosso un velo nero che ti copre la testa il collo e tutto il viso, lasciando scoperti solamente gli occhi.
La gente ti fissa, come non avesse mai visto una donna musulmana, nonostante nei giornali sia uno dei principali argomenti di cronaca. Sarà anche forse perché per Mestre se ne vedono ben pochi. O perché dal vivo fa tutto un altro effetto. Vedere un burqa in televisione e indossarlo per davvero non è la stessa cosa. Innanzitutto all’interno, si respira con difficoltà. Chi lo porta tutti i giorni ci fa forse l’abitudine, sa come infilarselo, quanto stringerlo, e magari si abitua anche al fatto che bere un caffè è più difficile del previsto.
Finché sono alla guida dell’automobile, nessuno se ne accorge, quando però smonto dall’auto inizia l’avventura. Allora gli occhi sconvolti delle persone, quelli li noto subito. Magari è per questo che chi porta il velo integrale generalmente evita a sua volta di incrociare gli sguardi degli altri. Martedì mattina alle 10.30, di gente in giro ce n’era parecchia. La sensazione si sentirsi «strano» e di avere gli occhi puntati addosso, non è per nulla tanto bella. Sotto i portici, guardo le vetrine, ma noto che chiunque passi, si gira. Io lo so il perché. Nessuno però mi rivolge la parola per chiedermi qualsiasi cosa.
Dopo aver oltrepassato via Caneve, giungo in piazza Ferretto. Ma riflesse nelle vetrine, vedo le teste delle persone che si voltano, e addirittura qualcuno un pò più lontano, che mi indica con il dito. In via Pio X trovo anche il capo del Welfare Sandro Dal Todesco, che non sembra però sconvolto. E incrocio anche l’assessore all’Urbanistica Gianfranco Vecchiato,che però non mi nota. Entro come una qualsiasi cliente in libreria «Moderna», vicino a Baessato, la commessa mi accoglie sulla porta con un gran sorriso, quasi contenta di vedere una donna con il burqua. Forse - mi dico - chi sta a contatto con i libri è più colto degli altri, e dunque più aperto. Guardo, spio tra le novità. E dopo un pò me ne vado. Ma arrivata sotto i portici, mi accorgo degli anziani. Loro non si vergognano di girarsi, mi fissano con le mani dietro la schiena, borbottano tra loro e più di qualcuno anche davanti a me, sfacciatamente. «Davvero no ghe se più religion» leggo chiaramente sulle labbra di un signore all’altezza di Intimissimi. E mentre passo avanti, dietro le spalle un altro dice forte: «A casa loro e deve stare così conciae».
Ho ben capito come tira l’aria. Qualche passo più in là un vecchietto dall’aria simpatica, che mi diventa subito antipatico, mi urla di andare a quel paese. E un altro mi dice che da noi, «quella roba là non si usa». Entro nella libreria «San Michele», quella della diocesi, per intendersi, dove sfoglio un po’ di libri sull’interculturalità, l’integrazione, l’integralismo, ma la commessa mi guarda a vista, mi controlla e non appena mi muovo, mi lancia un’occhiata.
Così me ne vado. La prima persona che mi rivolge la parola è un ragazzo di quelli che intervista la gente che passa sul numero di libri letti all’anno: mi chiede quanti ne compero, a lui del mio velo non gliene importa nulla. La cosa mi solleva e così gli rispondo in inglese che non parlo l’italiano. Ci salutiamo. Poi incrocio un africano molto distinto che mi fa un sorriso e vuole sapere da dove vengo. Gli rispondo che sono egiziana. Parliamo un po’, mi invita fuori a cena la sera stessa, ma declino.
Al Centro «Le Barche» mi sono oramai abituata al fatto che chiunque mi veda mi fissi e mi controlli: passo due volte davanti alla guardia, faccio un giro per i negozi e poi esco. Entro un pò titubante alla Banca Intesa di piazzale Sicilia. Attendo il mio turno al bancomat. Le signore che entrano però mi si allontanano finché un signore sulla settantina mi domanda: «Non sarà mica una rapina vero?». Io lo rassicuro, ma mi rendo conto che la mia presenza non è molto gradita. La tappa successiva è al supermercato «Alì» di piazzale Candiani. Chiedo dove si trovano i cornflakes ad un commesso, che me li indica un pò confuso, e poi mi metto in fila alla cassa. Una signora, poco educata davvero, mi passa davanti. E lo fa apposta. Io la lascio andare, e quella dietro ancora prende le mie difese: «Le ha rubato il posto - dice - così non si fa. C’era lei davanti e ristabilisce l’ordine». Un bel gesto davvero.
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