"Cineprime": i migliori film del fine settimana

Tanti appuntamenti sul grande schermo: da Tom Hanks e i pirati somali, all'ultimo film di Francois Ozon. Passando per la poesia di "Jaula de oro" e il terrore di "Prisoners"

“Captain Phillips – Attacco in mare aperto”

A vincere sono i signori della guerra

Regista consolidato dalla serie dei film legati all’agente segreto Jason Bourne, interpretato da Matt Damon, ma non dimentico anche del cinema impegnato degli esordi (“Bloody Sunday”) Paul Greengrass confeziona con “Captain Phillips – Attacco in mare aperto” un mix tra le sue due caratteristiche, in bilico tra azione spettacolare e psicologia dei personaggi. La storia, tratta dall’autobiografia del comandante (Tom Hanks) della portacontainer “U.S.A. Alabama”, narra del sequestro avvenuto nel 2009 da parte di una banda di pirati Somali della nave e della liberazione del capitano Phillips. Ma più e meglio il film svolge il rapporto difficile e reciproco tra il comandante americano – middle-class efficiente, sicuramente wasp – e il capo del drappello di quattro pirati che lo sequestra, Muse, un ragazzo non sprovveduto e meno feroce dei connazionali. Greengrass sviluppa molto bene questo legame di riconoscimento reciproco e di rispetto, mescolando scene spettacolari e altre più intime, facendo emergere un quadro dove tutti i protagonisti, americani e somali, sono vittime della globalizzazione e di una visione contrapposta tra Usa e resto del mondo, conseguenza dell’11 settembre 2001. E dove a vincere sono ancora una volta i signori della guerra, dell’una e l’altra fazione. Dur.: 134’ – Voto: *** ½

“Giovane e bella”

Uno sguardo lucido sulla borghesia

C’è un po’ di tutto nell’ultimo film di François Ozon, “Giovane e bella”, dove il bel fisico e lo sguardo tristemente seducente di Marine Vacht danno corpo al racconto di formazione amorosa di una diciassettenne francese, dalla comparsa del desiderio sessuale alla sua prima volta, scandito da quattro stagioni e quattro canzoni. C’è un po’ di pruderie e di voyeurismo francese, qualche citazione molto classica (dalla “Belle de jour” di Bunuel a “Questa è la mia vita” di Godard, ai tempi di Rohmer), un po’ di ruffianeria adolescenziale, parecchio buon cinema, ma anche molti luoghi comuni che pur si diverte a stigmatizzare. Ovvero la ragazza che sceglie di prostituirsi per noia, per scelta di irretimento reciproco o per semplice gioco, lo fa per mancanza della figura paterna, per eccesso di ruolo materno o semplicemente per desiderio di autoaffermazione? In questo Ozon lascia spazio a diverse letture, ma al di là di qualche sguardo lezioso e compiaciuto, soprattutto negli incontri clandestini, il regista di “Potiche” e “Nella casa” mostra ancora una volta una lucidità di analisi degli ambienti borghesi che pochi hanno in Francia e anche da questa parte delle Alpi. Cameo straordinario di Charlotte Rampling nei panni della vedova dell’anziano che muore tra le braccia della ragazza. Dur.: 94’ – Voto: ***

“La jaula de oro”

Tre ragazzini e lo spietato destino di un sogno oltreconfine

Tre ragazzini (due guatemaltechi e un indio) camminano lungo i binari della ferrovia come i protagonisti di “Stand by me”. Juan fa il capetto ma non ha il coraggio di tirare il collo a una gallina. Sara si è tagliata i capelli e si è fasciata il seno per sembrare un maschio. Chauk è nativo del Chiapas e non parla spagnolo. Sono diretti a nord, verso quel nuovo mondo che chiamano città degli angeli: “Lamerica” si trova laggiù, oltre il Messico, al di là di un muro che non ha porte e cancelli, ma solo crepe, sufficientemente larghe per attraversarlo, ma, allo stesso tempo, troppo anguste per scorgere ciò che realmente sta dall’altra parte. “La jaula de oro” (La gabbia dorata, d’oro come la porta aperta da Emanuele Crialese tra una pietraia siciliana ed Ellis Island agli inizi del ’900) è il fulminante esordio alla regia di Diego Quemada Diez, uno che il cinema lo conosce da dentro per aver collaborato per anni come operatore di macchina di Ken Loach, Oliver Stone, Alejandro Inarritu, dai quali, evidentemente, ha imparato la solidarietà per gli ultimi e l’attenzione per gli sguardi, la guerra tra poveri e le storie di frontiera. “La jaula de oro” (distribuito dalla padovana Parthenos, dopo aver raccolto premi a Cannes e a Giffoni), proprio come i suoi meravigliosi protagonisti, si muove lungo i confini di un cinema che non può essere imprigionato, a dispetto del titolo, in una definizione: ha l’incedere del documentario, ma è anche poesia; è un racconto on the road ma è anche un piccolo saggio di geopolitica e un viaggio nell’anima di una terra che, come scriveva Eduardo Galeano, è “così lontana da Dio e così vicina agli Stati Uniti”. Sopra vagoni di treni merci che attraversano paura e deserti, speranze e montagne, si consuma il dramma di tre migranti, pezzi di carne inconsapevolmente destinati al macello, che pure credono nel futuro, nonostante un presente popolato da poliziotti violenti, “pirati del deserto”, narcotrafficanti crudeli e brutali commercianti di vite disperate che, soltanto di rado, godono di inaspettati gesti di generosità (una ciotola di acqua condivisa, un frutto lanciato dai contadini, un pugno di dollari per risparmiare la vita di Chauk). Nessuno si può salvare. La neve che cade sui sogni dei migranti non copre la disperazione, anzi la congela e la fissa in una condizione esistenziale di frontiera: né di qua, né di là; ma comunque in una gabbia. Qui, a differenza che in Loach, nulla evapora per la gioia degli angeli: i miasmi, il gelo e gli scarti del macello nella sequenza finale del film sono tutti per gli uomini. E sono tremendamente reali. Durata: 102’. Voto: ****

“Prisoners”

Il thriller che fa riflettere sulla fede

“Prisoners”, il primo film di produzione americana del regista canadese Denis Villeneuve (già autore del bellissimo “La donna che canta”), è un thriller dall’impianto solido che, sotto la superficie dei codici del genere (lo spunto è il rapimento di due bambine e la corsa contro il tempo di un detective e dei familiari per ritrovarle vive, tra sospetti e depistaggi), cova una potente riflessione sulla fede, su un Dio invocato, pregato e maledetto da una umanità allo sbando, in cui tutti sono prigionieri di qualcuno o di qualcosa e in cui giustizia, legge e vendetta disegnano un labirinto esistenziale senza vie d’uscita. “Prega per il meglio, preparati la peggio” ripete il padre di una delle bimbe, come a dimostrare quella distanza incolmabile che scava un solco profondissimo tra dover essere ed essere. Finale “sonoro” da brividi e cast notevole (Hugh Jackman, Jake Gyllenhaal, Viola Davis, Paul Dano, Maria Bello, Melissa Leo). Durata: 153’. Voto: ***

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