Calcio, morto di Covid Fabio Enzo: quel rigore tirato di tacco

VENEZIA. Lo chiamavano bulldozer. Merito della sua stazza, del suo incessante avanzare sul campo, che tutto travolgeva fino a gonfiare la rete avversaria. Fabio Enzo era un duro calpestando i prati degli stadi italiani, ma aveva un cuore d’oro nella vita di tutti i giorni. Due volti di un uomo d’un pezzo che, in vent’anni di carriera calcistica, ha vestito quattordici maglie, spiccando il volo con quella neroverde del Venezia. Un calcio che negli anni ’60 e ’70 era vera poesia, che ci giunge attraverso immagini sbiadite o in bianco e nero, l’esatto opposto della mondanità fatta di social e pettegolezzo odierna.

Anni da pane e salame, sguardi a muso duro ed entrate alle caviglie, ma fatto di abbracci a fine partita, mentre i tifosi delle squadre si mescolavano sugli spalti con le loro bandiere. Altri tempi, sì, in cui Enzo seppe ritagliarsi un suo ruolo, una sua notorietà. Per molti è associabile ai Meroni o Zigoni di casa nostra, senza scomodare Best & compagnia oltre Manica. Ed ecco che le due personalità insite nel calciatore, che i natali li ha avuti a Cavallino, emergevano in tutta la loro magnificenza. Indimenticabile infatti il calcio di rigore che tirò di tacco in un Cesena-Casertana di Coppa Italia sul 3-0, sfida che altrimenti oggi non ricorderebbe più nessuno.
Un colpo di eccentricità che si infranse sul palo e gli valse una multa da 200 mila lire, quasi uno stipendio dell’epoca. Ma lui era così: attaccante purosangue che dava cuore e polmoni alla sua squadra, ma che aveva bisogno pure di vivere la vita calcistica con un supremo atto adrenalinico.
Uno che la gamba non la tirava mai indietro, tanto da meritarsi una sfilza di cartellini rossi (si narra in tutto siano stati 64), da riempirci una parete di casa. E allora ecco che da quei decenni ormai impolverati emerge una vignetta che a Enzo venne dedicata da Il Tifone, in cui il giocatore abborda una ragazza e le sussurra: “Venga a casa mia signorina, le mostrerò la mia collezione di squalifiche…” . Ma uno dei più celebri “cattivi” del calcio nostrano poi sapeva trasformarsi in un “buono” senza confini. Si racconta infatti che fosse sempre pronto a togliersi il cappotto, per regalarlo a un mendicante infreddolito se lo incontrava lungo la sua strada. Venezia, Salernitana, Verona e Mantova, ma anche Foggia o Novara, fino a piazze ora lontane dal calcio che conta come Omegna e Biella, lo hanno applaudito. E poi ci fu la Roma. Con i giallorossi segnò un gol che decise un derby capitolino contro la Lazio.
Una rete segnata il 23 ottobre 1966, pochi giorni prima che una buona fetta di Paese finisse sott’acqua. Ieri, proprio la Roma lo ha voluto ricordare partendo da quel momento rimasto timbrato nella storia del club. Perché puoi segnare mille gol, ma se all’Olimpico stendi la Lazio, sei un eroe per sempre dalle parti della Curva Sud. Enzo era un centravanti di sfondamento alla vecchia maniera: fisico, potenza e colpo di testa. Ma che poi si scioglieva nella sua Cavallino, tra una frittura di pesce con gli amici e il profumo di iodio della brezza marina. Figlio di un territorio di genuina semplicità, dove rimboccarsi le maniche era normale fin dall’epoca. Diceva: “Non guadagno molto ma spendo tutto” . Di mezzo un’epica love story a New York, mascherata da rientri a Jesolo.
A Novara lo allenò Parola, il suo sinistro lo paragonavano a quello di Riva, ma a fare l’impiegato non ci si vedeva. Era uno spirito libero, e oggi lo è più che mai. –
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