Battaggia: «Ho ucciso, ma per amore»

L’intervista/ Il super-latitante del Nordest racconta il suo delitto e le rocambolesche fughe: «E ora sono pronto per l’ultima, in Ecuador». E ancora: «Io come Maniero? No, io vendevo il pesce, non le persone»

MESTRE. L’ultima fuga di Franco Battaggia. E stavolta non è una fuga dal carcere e neppure dall’Interpol. La sua è una fuga da una terra che ormai gli sta troppo stretta, dove tra gli anni Settanta e Ottanta è diventato prima re del pesce, poi bandito, infine assassino. Nel rispetto di un suo «codice d’onore», ma anche un assassino. Che il 12 agosto 2011 ha finito di scontare la pena: 21 anni di carcere in 66 di vita. Franco Battaggia, mestrino d’origine e trevigiano d’adozione, il super-latitante per eccellenza, la «primula rossa» del Nordest, si appresta a lasciare l’Italia. Per la prima volta lo farà con un passaporto regolare e una valigia che non sarà un sacchetto per il pane. Andrà a vivere in Ecuador dove ha trovato più volte riparo dai mandati di cattura internazionali. Lì aprirà un locale su un terreno di 300 metri. «Diventerà il tempio di una nuova movida», spiega la Primula Rossa che per la prima volta accetta di raccontare e raccontarsi. A modo suo, nel suo stile che definisce «sfacciato, ma buono, mai strafottente».

Cominciamo dall’inizio. I suoi primi furti, le sue prime rapine.

«E chi se li ricorda? A me non mancavano soldi. Certo agivo anche per lucro, ma agivo soprattutto per sfida con le forze dell’ordine, senza contare l’adrenalina che saliva quando si scassinava una porta, si disinnescava un allarme, si arraffava il bottino. Colpi che si studiavano per giorni e che poi si consumavano in secondi. E le confesso che a volte si doveva anche studiare per capire cosa rubare, quale fosse il pregio di un quadro, di un mobile, di un tappeto».

Lei ha trascorso molti anni in carcere per aver ucciso nel novembre del 1988 Vincenzo Ciarelli, trovato cadavere in una vasca di Forte Pepe a Marghera.

«Adesso le racconto la verità su quanto accaduto. In quel periodo gli affari con il pesce andavano a gonfie vele e un commerciante di Brescia che capeggiava una banda di nomadi voleva taglieggiarmi. Voleva che io pagassi il pizzo. Per convincermi a cedere, il 28 agosto dell’ 88 mandarono dei Rom che all’esterno della Pescheria a Treviso non esitarono a schiaffeggiare mia moglie. Tre giorni dopo lei morì per un ictus. Fernanda era una donna bella, buona, unica. No, non potevo perdonare: avevano spento la mia vita colpendo il mio affetto più caro. Anche per questo a distanza di anni non provo alcun pentimento».

Dopo il delitto, la sua prima fuga in Francia.

«Sono andato a Tolone, da lì riuscivo ancora a gestire i miei affari. All’inizio non è stato facile, soprattutto perché mi chiamavano con il nome indicato nel passaporto falso. E quindi quando mi cercavano non rispondevo mai».

Per un anno lei gira l’Europa, poi all’alba degli anni Novanta arriva in Ecuador.

«E anche lì facevo il commerciante di pesce. Mi ero dedicato al contrabbando di pescecane. Tutto filava liscio fino a quando una mattina, mentre ero diretto a Guayaquil la polizia circondò il Vitara sul quale viaggiavo. Mi portarono in carcere, ma ho resistito soltanto due giorni. Il terzo sono fuggito».

E come?

«Ho fatto un’ora di stretching per allenare i muscoli. Quindi ho chiesto alla guardia di andare a preparami dei panini con il formaggio mentre io mi sarei fatto la doccia. Avevo studiato la situazione, e sapevo che saltando, quasi volando, sarei potuto fuggire. E così è stato…».

A quel punto ripara in Colombia.

«Lì mi sono fermato poco, il tempo necessario perché si calmassero le acque. Non c’era alcuna possibilità di intraprendere attività. Quindi sono tornato in Ecuador».

Nel 1993 viene arrestato nuovamente.

«A commettere il passo falso è stata la mia più stretta collaboratrice. Lei è partita da Treviso ed è venuta in Ecuador senza avvisarmi. Ovviamente appena ha messo piede nell’appartamento in cui vivevo è scattato il blitz».

Ma anche quella volta lei riesce a fuggire.

«Diciamo che sono stato abile a “invogliare” le guardie che mi avevano in custodia con la promessa di un regalo in denaro. D’altro canto avevo un conto corrente presso il Banco Pacifico. Ovviamente sotto falso nome. Così le guardie hanno accettato di accompagnarmi in banca».

Fin troppo facile, visto quanto accadeva all’epoca in Sudamerica.

«E invece no. Quella volta il funzionario ha autorizzato il prelievo soltanto per il giorno successivo, e quindi lasciato l’ufficio le guardie mi stavano per portare in carcere. Siamo al quinto piano del Banco Pacifico, in attesa dell’ascensore che conduce al piano terra. All’improvviso però arriva l’altro ascensore. Quello che sale. Un istante prima che si chiudano le porte, io mi infilo lasciando sul posto gli agenti. Prendo la scala antincendio, raggiungo la strada e mi butto nel primo taxi, dicendo al tassista di accelerare perché ero inseguito da un marito geloso che aveva scoperto la relazione che avevo con sua moglie».

Dall’Ecuador alla Svizzera: altro fermo e altra fuga.

«Vengo bloccato a Lugano e portato a Chiasso. Niente manette ai polsi. Chiedo di andare a fare le pipì in bagno dove approfitto per legarmi per bene i lacci delle scarpe. Non appena mi stanno per infilare nel cellulare faccio un salto di tre gradini, e mi metto a correre come non mai. La polizia inizia a sparare: c’erano proiettili che mi passavano alla mia destra, alla mia sinistra, sopra la testa. Ma fortunatamente nessuna ferita. Quella volta a vendermi alla polizia elvetica fu un commerciante di pesce di Mestre. Eravamo in affari insieme, ma io avanzavo svariati milioni da lui».

Neppure mentre scappa a piedi riescono a beccarla.

«Ho camminato un giorno interno per tornare da Chiasso a Lugano. Faceva freddo, c’era anche la neve. Ho dovuto rubare un telo copri-moto per mettermi addosso qualcosa. Una volta giunto a Lugano ho atteso il funzionario della banca: gli ho detto che avevo avuto un incidente, che la mia ragazza era rimasta ferita e che dovevo prelevare dei soldi. Mi diede 10mila franchi, il denaro necessario per andare prima ad Antibes sulla Costa Azzurra della Francia e poi in Ecuador».

Ancora in Sudamerica…

«Sì sempre lì, ma stavolta quando mi hanno arrestato nel 1994, mentre stavo uscendo di casa mi hanno legato per bene. E mi hanno tenuto legato anche in cella. Avevo capito che la mia latitanza era finita».

Sembrano trascorsi anni luce.

«Ammetto che nel bene o nel male, tanti si ricordano di Franco Battaggia. Soltanto qualche mese fa al mercato del pesce a Treviso si è avvicinata un’anziana per ringraziarmi. Mi ha detto che la sua famiglia era riuscita a farsi una casa, grazie alle tante cassette di sardine che le avevo regalato o che le vendevo a prezzo stracciato. Mi sono commosso».

Un Franco Battaggia assolutamente inedito.

«Ormai sono un pensionato. Non so se sono diventato un uomo onesto. Penso di essere diventato un uomo saggio perché saggi si diventa soltanto sbagliando. E io ho sbagliato molto nella mia vita».

Non mi dica che si dichiara pentito.

«No, no assolutamente no. Io non rinnego nulla della mia vita passata. Non mi chiamo Maniero. Io ho sempre venduto pesce, non ho mai venduto le persone. Semmai le ho comperate, le ho conquistate».

A proposito, ha mai incontrato Maniero? Quelli erano anche gli anni della Mala del Brenta

«Mai incontrato».

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